Nascita del PCI

Sergio Contu intervista Sergio Dalmasso su Nascita PCI (Partito Comunista Italiano)

 

Nascita PCI Livorno

Delegati al teatro Goldoni di Livorno durante il XVII congresso del Partito Socialista Italiano

 

Nascita PCI

 

Sergio Contu videointervista su “La nascita del P.C.I. nel 1921 al XVII congresso del P.S.I.” a Sergio Dalmasso storico del movimento operaio:

Il Partito Comunista Italiano (PCI) è stato un partito politico italiano di sinistra, nonché il più grande partito comunista dell’Europa occidentale.

Venne fondato il 21 gennaio 1921 a Livorno con il nome di Partito Comunista d’Italia come sezione italiana dell’Internazionale Comunista in seguito al biennio rosso, alla rivoluzione d’ottobre e alla separazione dell’ala di sinistra del Partito Socialista Italiano guidata tra gli altri da Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Bruno Fortichiari, Antonio Gramsci e Umberto Terracini al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano.

Durante il regime fascista, che dal 1926 lo costrinse alla clandestinità e l’esilio, ebbe una storia complessa e travagliata all’interno dell’Internazionale Comunista negli anni venti e trenta, al termine della quale nel 1943 divenne noto come Partito Comunista Italiano.

Durante la seconda guerra mondiale assunse un ruolo di primo piano a livello nazionale, promuovendo e organizzando con l’apporto determinante dei suoi militanti la Resistenza contro la potenza occupante tedesca e il fascismo repubblicano.

Il segretario Palmiro Togliatti attuò una politica di collaborazione con le forze democratiche cattoliche, liberali e socialiste, propose per primo la «via italiana al socialismo» ed ebbe un’importante influenza nella creazione delle istituzioni della Repubblica Italiana.

Fonte Wikipedia

L’attualità del pensiero di Gramsci

 Intervengono Sergio Dalmasso e Giordano Bruschi.

Moderatrice Cecilia Balbi.

Intervento iniziale di Pino Cosentino.

Locandina Attualità del pensiero di Gramsci

L’Attualità del pensiero di Gramsci, temi del primo incontro:

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso

“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi

Video su L’attualità del pensiero di Gramsci:

Ciclo di incontri promosso da APS Consorzio Zenzero, Attac Genova, ANPI Sezione Genova S. Fruttuoso, Goodmorning Genova, Il Ce.Sto.

Primo incontro, martedì 20 ottobre 2020.

In diretta dal circolo ARCI Zenzero di Genova.

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso storico del movimento operaio.
“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi Partigiano e insignito della medaglia il Grifo d’oro massima onorificenza della città di Genova

Introduce Cecilia Balbi del Circolo Zenzero.

Tecnico audio Stefano Gualtieri

Tecnico video Dimitri Colombo

Conferenza trasmessa in diretta streaming il 20 ottobre 2020 su Facebook da Goodmorning Genova.

“Il consiglio comunale di Genova, minoranza e maggioranza – esclusi i consiglieri di Fratelli D’Italia che hanno deciso di votare contro – ha detto sì alla proposta di assegnare il Grifo d’Oro, massima onorificenza cittadina, a Giordano Bruschi.

Il partigiano “Giotto”, che presto compirà 95 anni, è conosciuto come memoria storica della resistenza e del novecento genovese, ma anche per la sua esperienza politica, sempre a sinistra, nel Pci, per cui fu consigliere comunale, e poi come scrittore, ambientalista e come anima dei comitati della Val Bisagno.

Sull’assegnazione del Grifo a Bruschi il plauso della Camera del Lavoro di Genova e del segretario Igor Magni.

Magni: “Grande soddisfazione per questo importante riconoscimento a Bruschi che con il suo impegno di militanza, esercitato sempre, anche nei momenti più difficili, rappresenta un esempio per tutti noi.

Un abbraccio fraterno da tutte e tutti noi della Cgil di Genova”. ”

Basso Massone?

Lelio Basso massone? Cronaca di un processo politico staliniano

di Giorgio Amico

Download “Lelio Basso massone? di Giorgio Amico”

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 Lelio Basso. rappresenta una delle figure più luminose, per coerenza umana e politica, del socialismo italiano. Una figura ancora viva come dimostra l’interesse nei suoi confronti da parte della ricerca storica. Citiamo per tutti “Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialismo eretico”, agile ma approfondita ricerca di Sergio Dalmasso, autore tra l’altro di una recentissima bella biografia politica di Lucio Libertini su cui intendiamo ritornare presto.

Una vita movimentata e complessa quella di Basso, già giovanissimo cospiratore antifascista ai tempi dell’Università, su cui, come si è detto, si è scritto moltissimo e in modo largamente esaustivo. Un solo episodio resta ancora da chiarire: la sua repentina esclusione dal gruppo dirigente del PSI nel 1951.

Una “brutta storia”, secondo Elio Giovannini. La pagina peggiore del periodo ultrastalinista del PSI, durato dal 1948 al 1954, e in gran parte dovuto alla gestione organizzativa di Rodolfo Morandi. Un periodo caratterizzato da un allineamento totale al Pci, dall’esaltazione grottesca dell’URSS e di Stalin, ma anche da espulsioni di dissidenti, sbrigativamente definiti “agenti della borghesia e provocatori infiltrati”, e da veri e propri processi politici con il contorno abituale di insulti e insinuazioni anche sulla vita privata dei malcapitati finiti nel mirino dell’apparato. Tutto questo toccò a Lelio Basso, fatto oggetto di una campagna di calunnie e insinuazioni e poi processato a porte chiuse e di fatto espulso dagli organismi dirigenti del partito. “Una mediocre rappresentazione – è stato notato -, talvolta miserabile, comunque dolorosa” della tragedia feroce che si consumava in quegli stessi anni in Unione Sovietica e nelle cosiddette Repubbliche Popolari nel silenzio complice della sinistra italiana e dei tanti intellettuali, pure ipercritici di ogni aspetto della società occidentale, che la fiancheggiavano.

Gratis il primo capitolo del libro di Sergio Dalmasso su Lelio Basso:

Download “Primo capitolo del libro Lelio Basso”

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Dal congresso di Firenze del maggio 1949 era uscita anche se di misura una nuova direzione, frutto della vittoria delle due mozioni di sinistra, quella di Nenni-Morandi e quella di Basso che aveva raccolto attorno alla sua rivista “Quarto Stato” una serie di giovani e promettenti quadri fra cui Gianni Bosio, Luigi Anderlini e Francesco De Martino.

Insieme i due gruppi si erano imposti al congresso contro la vecchia maggioranza centrista uscita dal congresso di Genova del 1948, ma fin da subito iniziarono a manifestarsi fra Basso e Morandi incomprensioni e contrasti sia politici che personali. Una situazione ancora oggi di difficile definizione, “una frattura – ricorderà trent’anni dopo De Martino – i cui termini sono poco comprensibili sul piano politico”. Affermazione sibillina che sottintende come, soprattutto da parte di Morandi, giocassero molto fattori personali ed emotivi.

Insomma, a Morandi, allora interamente teso ad assumere il pieno controllo del partito, Basso faceva ombra e andava in qualche modo liquidato, mentre con Nenni, che impersonava fisicamente il Psi e la sua storia e dunque era intoccabile, ci si poteva limitare a una forma blanda di messa sotto tutela. Cosa di cui il vecchio leader socialista era pienamente consapevole, tanto da tenere in quel drammatico frangente una posizione di basso profilo e dopo un diretto, e brutale, confronto con Morandi e i suoi principali sostenitori, tirarsi indietro e abbandonare Basso al suo destino.

Una situazione “difficile e tormentata” come racconta lo stesso Basso nel 1979 in un dibattito su Psi e stalinismo pubblicato sulla rivista teorica del partito Mondo operaio. È Basso stesso a ricostruire i fatti in un articolo apparso nel 1963 su problemi del Socialismo e significativamente titolato “Vent’anni perduti?”:

«In quegli anni l’incompatibilità fra le sue [di Morandi, NdA] e le mie posizioni era evidente e nella misura in cui dalle sempre più scarse tribune che mi erano consentite cercavo di difendere la mia posizione, mi ponevo in urto con la politica ufficiale del partito.

In particolare ricordo due articoli di quel periodo che fecero addirittura scandalo in seno alla Direzione del Psi e furono praticamente all’origine delle mie dimissioni. Uno apparso in Quarto Stato nel maggio 1950 conteneva affermazioni, che oggi sembrano banali ma che allora suonavano eretiche, circa la diversità delle vie al socialismo, circa la carica dinamica dell’imperialismo e la sua capacità di sfuggire all’attesa “crisi finale”, ma soprattutto circa la non inevitabilità della guerra. “Rappresenta questa terza guerra mondiale lo sbocco necessario della complessa situazione attuale? Evidentemente no.

Se è vero che l’imperialismo è spinto alla guerra dalla logica stessa delle sue contraddizioni, dai profondi squilibri che crea la sua azione nel mondo, dalla sua incapacità a risolvere la crisi ormai permanente e generale del sistema, dalla folle corsa agli armamenti che è diventata un elemento indispensabile della sua vita economica e una condizione per l’accumularsi di maggiori profitti, è altresì vero che nulla vi è di fatale nella storia, e che l’azione cosciente degli uomini è in definitiva una creatrice di storia infinitamente più ricca di possibilità. E fra queste possibilità vi è quella d’impedire all’imperialismo di scatenare la sua terza guerra».

Ma più grave ancora apparve un articolo da me pubblicato in Francia in cui difendevo la mia concezione dell’unità d’azione e criticavo quei compagni «che confondono l’unità d’azione con l’assoluta identità fra i partiti “ignorando le differenze storicamente consolidate fra i due partiti, differenze, dicevo, «destinate a sparire, ma destinate a sparire non per volontà di alcuni dirigenti, non per accordi ai vertici, ma in base all’esperienza stessa unitaria delle masse».

E concludevo: «Come Lenin ha insegnato con particolare insistenza, l’esperienza delle masse costituisce la via insostituibile attraverso cui la classe operaia consegue dei risultati duraturi. Anche in questo caso perciò il marxista-leninista sa di dover modificare la realtà, ma sa di poterla modificare in quanto l’assuma come punto di partenza per la sua azione, e non in quanto la ignori; sostituire alla realtà una formula che corrisponde soltanto ai propri desideri, sostituire al processo il miracolo, significa essere chiusi alla vera mentalità dialettica, che è il fondamento del marxismo».

Queste prese di posizione significarono la “rottura definitiva”. Uno scandalo per i fautori della linea morandiana. Ricordiamo che Morandi nell’aprile 1950 al convegno giovanile di Modena sosterrà come un dogma la tesi che la politica unitaria doveva essere fondata sulle identità e non sulle differenze fra Psi e Pci.

Nel 1950 dunque lo scontro , finora latente, matura ed esplode pubblicamente. Basso viene investito da una campagna progressivamente crescente di accuse di deviazionismo e di frazionismo non prive di insinuazioni sulla sua vita privata. Basso è accusato di essere trotskista, nemico dell’Unione Sovietica e dell’unità organica con i comunisti, in “combutta” con agenti dell’imperialismo americano come Tito e l’ex ministro degli esteri ungherese László Rajk processato per titoismo e sbrigativamente impiccato il 15 ottobre 1949.

Agli attacchi seguono i fatti: Basso è costretto a cessare la pubblicazione della sua rivista Quarto Stato, le sue attività di dirigente dell’Ufficio ideologico-culturale del partito boicottate, i suoi viaggi e i suoi incontri con compagni spiati. In una parola, si cerca con ogni mezzo di fargli il vuoto attorno. I suoi principali sostenitori, soprattutto fra i giovani, come Elio Giovannini responsabile degli studenti socialisti, sollevati dai loro incarichi.

Così venne sviluppandosi via via una tensione, che si accentuò col passare del tempo”, sono parole di De Martino che ne spiega anche le cause: “La nostra critica riguardava principalmente la scarsa democrazia interna e i metodi che si stavano instaurando nel partito”, insomma la svolta ultrastalinista di Morandi.

Basso se ne lamentò direttamente con Nenni con una lunga lettera del 13 settembre 1950, la risposta fu raggelante:

«La posizione da te assunta verso i nostri uffici e i loro dirigenti è stata ingiusta nelle sue motivazioni e poteva riuscire ed in parte è riuscita deleteria nelle conseguenze. È nata da questa tua critica , portata fuori dalla sua sede naturale, l’accusa di cui ti duoli di lavoro di frazione o comunque personalistico. Ora tale accusa è venuta da troppe parti contemporaneamente perché la possa ritenere puramente e semplicemente arbitraria. […] una situazione che non è sorta oggi, ma dura da anni, dura dal Congresso dell’Astoria, da dove ha inizio il tuo tentativo di dividere la sinistra».

A questo punto Basso ha chiaro che la battaglia dentro l’apparato del Psi è definitivamente persa. Il 28 settembre si tiene a Roma una riunione dell’esecutivo socialista in cui Basso viene esplicitamente accusato di frazionismo. Eloquente il resoconto che ne fa De Martino:

«In tale riunione, mentre Nenni taceva, vi fu una sorta di processo, nel corso del quale l’accusa rivolta a Basso era di frazionismo e di attività nociva dell’unità del partito. Ad uno ad uno i membri dell’esecutivo formularono la loro critica. […] Basso non si difese né fece valere le nostre ragioni. Egli appariva rassegnato ad un evento che giudicava inevitabile. Solo chi scrive, nuovo dei rituali in uso in quel tempo nei pariti operai, tentò una difesa di Basso, suscitando la reazione di impazienza e di fastidio di Morandi».

In realtà De Martino fece di più. Nei giorni successivi avvicinò Amendola e Pajetta affinché il Pci intervenisse a favore di Basso, e i due esponenti comunisti lo fecero ricevendone in risposta l’invito a non ingerirsi negli affari interni del Psi, ma evitando tuttavia (è Basso stesso a raccontarlo su Mondo Operaio nel 1979) con il loro intervento che egli fosse addirittura espulso dal partito per i suoi presunti contatti con l’ungherese Rajk.

Alla riunione dell’Esecutivo fece seguito un colloquio privato con Morandi, i cui termini furono mantenuti rigorosamente celati anche ai collaboratori più stretti come De Martino. Basso ne uscì completamente annichilito e non tentò più nessuna resistenza.

Fu il segnale della liquidazione definitiva della sua corrente. Al Congresso di Bologna del gennaio 1951, il “congresso della vergogna”, come lo definisce Giovannini, Basso e i bassiani furono estromessi dalla Direzione e poi nel successivo congresso, quello di Milano del 1953, anche dal Comitato centrale.

Da allora fino al 1954 fra Basso e Morandi non ci fu più alcun tipo di rapporto, né politico né personale.

L’atteggiamento rassegnato di Basso stupì tutti, soprattutto i suoi compagni più stretti, uno dei quali gli chiese direttamente ragione con una lettera del 10 ottobre 1950 del “tuo inspiegabile comportamento passivo. Il giornale della Nuova Stampa parla di una questione morale che avrebbe, a quanto si capisce, dato la possibilità ai morandiani di farti un ricatto”

Ma allora cosa era accaduto nel colloquio a due di tanto grave da convincere un uomo combattivo e deciso come Basso a desistere dalla lotta e a lasciarsi cacciare senza reagire? Di che questione morale si trattava? Non è allo stato attuale dato saperlo, ma forse la risposta si trova in un piccolo, ma molto interessante, libro uscito su tutt’altro argomento nel 2005.

Nel 2005, dicevamo, Massimo della Campa, prestigioso avvocato, antifascista e presidente della Società Umanitaria fiore all’occhiello del socialismo riformista milanese, ma soprattutto Gran Maestro onorario del Grande Oriente d’Italia e dunque persona assai informata in materia di cose massoniche, pubblica un libro dal titolo significativo: “Luce sul Grande Oriente.

Due secoli di massoneria in Italia”, in cui racconta con abbondanza di dettagli episodi noti e meno noti della storia del GOI. Parlando della Massoneria milanese della fine anni ’40 inizio anni ’50, Della Campa

scrive:

«In verità quell’epoca era dominata da passioni accese e molto violente derivate dalla spaccatura in due della vita internazionale e di quella politica. Basti solo ricordare i socialisti, divisi allora fra pro-sovietici e pro-occidentali. Quelli più anziani ricordano le liti furibonde non solo fuori loggia, fra sostenitori del Patto atlantico ed avversari (a Milano, Lelio Basso quasi venne alle mani con un fratello antagonista)».

In colloqui avuti con Aldo Chiarle, conosciutissimo socialista savonese, ma soprattutto massone dal 1945, già segretario della Massoneria Unificata d’Italia e poi Gran Maestro onorario del GOI e 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, gli abbiamo posto più volte la questione. Chiarle sempre ci rispose che la cosa gli risultava vera, ma che non aveva riscontri ufficiali. L’ultima volta che ne parlammo, mi promise di visionare gli archivi centrali del GOI e di darmi una risposta certa. Ma non ci fu più occasione di rivederci. Morì prima di poterlo fare, a 87 anni, nel luglio del 2013.

Sulla base di queste fonti ci pare non improbabile che l’argomento usato da Morandi per piegare definitivamente la resistenza di Basso sia stato proprio la sua appartenenza alla Massoneria che, se rivelata pubblicamente, ne avrebbe immediatamente causato l’espulsione da un partito allora profondamente stalinista.

I tempi erano quelli, bastava poco per essere espulsi con motivazioni infamanti. Esemplare a questo proposito il caso di Giuseppa Pera, dirigente della Federazione socialista di Lucca, poi prestigioso docente di Diritto del lavoro, espulso nel 1952 per “tradimento” per aver coltivato “legami con movimenti nemici del partito e della classe lavoratrice” [Il movimento dei comunisti dissidenti di Cucchi e Magnani, NdA].

Basso conosceva perfettamente queste dinamiche e, anche se con una profonda sofferenza interiore testimoniata dalle sue lettere, fu costretto a prenderne atto se voleva comunque continuare, anche come semplice iscritto di base, la sua militanza nel partito alla cui costruzione aveva dedicato gran parte della sua giovinezza.

Per saperne di più:

Lelio Basso, Vent’anni perduti?, Problemi del Socialismo, nn.11-12, 1963.

Lelio Basso (et Alii), Il PSI negli anni dello stalinismo, Mondo Operaio, n.2, 1979.

Sergio Dalmasso, Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star Press, Roma 2018.

Francesco De Martino, Storia di Lelio Basso reprobo, Belfagor, vol. 35, No. 4 (3 luglio 1980).

Massimo della Campa, Luce sul Grande Oriente. Due secoli di massoneria in Italia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005.

Elio Giovannini, Una brutta storia socialista dei tempi di Nenni: la “liquidazione” di Lelio Basso, in: Giancarlo Monina (a cura di), Il Movimento di Unità Proletaria (1943-1945), Carocci, Roma 2005.

Luciano Paolicchi (a cura di), Lelio Basso Pietro Nenni Carteggio, Editori Riuniti University Press, Roma 2011.

Giorgio Amico

Savona, 25 luglio 2020

Download del saggio di Giorgio Amico

Il prezzo della libertà

Jorn Schutrumpf, Il prezzo della libertà. Rosa Luxemburg

Supplemento al n. 10 di “LEFT”, 2020.

Prezzo libertà

Download “Jorn Schutrumpf, Il prezzo della libertà. Rosa Luxemburg, (di S. Dalmasso) nel supplemento al n. 10 di “LEFT””

Scheda-Rosa-Luxemburg-LETF-giugno-2020.pdf – Scaricato 8642 volte – 629,84 KB

Il prezzo della libertà – “LEFT” pubblica un interessante supplemento, sulla grande figura di Rosa Luxemburg, scritto da Jorn Schutrumpf, storico, direttore del settore scientifico della Fondazione Rosa Luxemburg di Bruxelles, vicina alla Linke tedesca e alla sinistra europea.

Il prezzo della libertà

Il centenario della morte/assassinio degli spartachisti (oltre a Rosa, Karl Liebknecht, Leo Jogiches, Franz Mehring e tanti dirigenti e militanti operai) è passato piuttosto in sordina in una sinistra italiana debole, afasica e priva di dibattito storico-politico.

Guido Liguori ha curato una antologia degli scritti luxemburghiani (Socialismo, democrazia, rivoluzione, Roma, ed Riuniti), la Redstarpress di Roma, oltre al mio Una donna chiamata rivoluzione, ha ripubblicato la Juniusbrochure”, la rivista “Alternative per il socialismo” ha dedicato alla rivoluzionaria polaccca un numero speciale (dicembre 2019-marzo 2020).

Pochi i convegni, i dibattiti, rare, anche se meritorie, le iniziative.

Il merito del testo di “Left” è di essere molto agile e soprattutto espressione di una fondazione e di uno storico non italiani, capaci, quindi, di un respiro europeo.

Il testo segue le tappe della vita della grande rivoluzionaria, iniziando dalla posizione atipica sulla questione nazionale polacca, che la distingue, da subito, dalle tesi prevalenti nella prima e nella seconda Internazionale e dal maggiore senso tattico di Lenin che vede nella spinta per l’indipendenza polacca una contraddizione nell’impero zarista, centro della reazione europea.

Quindi, la formazione universitaria in Svizzera, l’ingresso nel movimento socialista tedesco, la polemica contro il revisionismo di Eduard Bernstein.

Se i papi del socialismo (Kautsky) rispondono a Bernstein riproponendo una lettura ortodossa, la giovane socialista in Riforma sociale o rivoluzione? espone una ipotesi nuova, radicale, nel legame tra lotte politico-sociali ed obiettivo finale (il concetto metodologico lukacsiano di totalità).

La certezza nella prospettiva rivoluzionaria sembra trovare espressione nelle lotte che nell’Europa intera si accendono ad inizio secolo e nello strumento dello sciopero generale di massa, oggetto di discussione in tutto il movimento socialista del tempo.

Qui, il testo sottolinea il secondo nodo del pensiero luxemburghiano: all’antiriformismo, alla critica all’opportunismo socialdemocratico, elettoralistico, parlamentarista, ministerialista, alla opposizione frontale al burocratizzarsi del movimento operaio

(che Luxemburg coglie per prima, notandone il legame con il corrompimento politico) si somma la critica alla concezione leniniana (alcuni la ritengono anche kautskiana) dell’organizzazione in cui il centralismo autoritario si contrappone al protagonismo delle masse.

In Problemi organizzativi della socialdemocrazia russa,

“Rosa” contrappone all’ultracentralismo, allo spirito sterile del guardiano notturno di Lenin, l’autodisciplina volontaria, la attiva partecipazione delle masse come unico antidoto al pericolo del riformismo e dell’opportunismo (la concezione leniniana della coscienza esterna è risposta deformata).

La rivoluzione russa del 1905 sembra confermare la tesi del protagonismo di massa e dell’apertura di una fase rivoluzionaria a livello internazionale.

L’ottimismo rivoluzionario sopravvive anche alla sconfitta, ai massacri, alla restaurazione dell’autorità zarista.

La struttura del Soviet (l’autore non fa cenno, qui come altrove, al ruolo di Trotskij) come strumento di democrazia di base diviene elemento di scontro politico e di contrapposizione progressiva all’involuzione della socialdemocrazia tedesca.

Non è indifferente, nel dibattito sulle trasformazioni strutturali di inizio ‘900 (la fase imperialistica) la posizione, ancora una volta atipica, espressa negli scritti economici (L’accumulazione del capitale, L’anticritica),

in cui ipotizza che il circuito capitalista si sarebbe fermato se non avesse continuato a sfruttare il “terzo mondo” non capitalista, fornitore di materie prime e mercato.

Anche la guerra non nasce da scelte soggettive, ma da necessità strutturali, nel momento in cui tutti i paesi “non capitalistici” sono stati conquistati dalle grandi potenze e queste entrano inevitabilmente, in conflitto tra loro per la spartizione dei mercati.

Da qui l’atipicità dei suoi scritti economici, oggetto di critica, ma anche strumento preveggente della globalizzazione capitalistica.

L’autore ricorda la formula Socialismo o barbarie, che richiederebbe, però, una maggiore analisi (è un vero tornante nel pensiero luxemburghiano tra un oggettivismo iniziale, proprio di tutto il socialismo, e il dramma innestato dal crollo della socialdemocrazia,

nella sua accettazione della guerra mondiale), gli anni del carcere (quasi tutto il periodo della guerra), aspetti significativi della vita personale, testimoniati soprattutto dalle tante lettere.

Largo spazio è dato alla controversa opera sulla rivoluzione russa, scritta in carcere con scarsi elementi di conoscenza, non pubblicata in vita, ma solo postuma (da Paul Levi, dopo la sua uscita dal Partito comunista tedesco).

L’opera dimostra la insufficiente documentazione su molti temi,

ma offre squarci preveggenti sul tema della democrazia, della partecipazione, di quel sostitutismo di cui già Trotskij parlava nella sua polemica con Lenin, in I nostri compiti politici.

La maggior responsabilità delle contraddizioni del nuovo potere sovietico è nel proletariato occidentale che non ha compiuto il proprio dovere rivoluzionario, ma le pagine sulla assenza di democrazia, sulla libertà che è sempre libertà di dissentire,

sulla drammatica deriva verso forme dittatoriali, violente e autocratiche sono preveggenti e pongono il problema del fallimento della sinistra nel ‘900, nella involuzione drammatica delle esperienze rivoluzionarie, da cui l’autore salva tre figure, le uniche, “senza macchia” nella nostra storia: oltre a Rosa, Antonio Gramsci e il Che.

Se mi è concessa una nota critica, le valutazioni dell’autore offrono una interpretazione eccessivamente unilaterale, nella totale negazione del bolscevismo, nella affermazione di una linea diretta Lenin-Stalin, da molti contraddetta,

in una sorta di “filosofia della storia” che in un interessante parallelo con la rivoluzione francese (fase giacobina, Termidoro, Napoleone), sembra riproporre come inevitabile l’involuzione di ogni ipotesi di cambiamento.

La distruzione del gruppo spartachista ha privato il movimento comunista dell’unica alternativa alla creazione di un unico centro (quello di Mosca) e di una sorta di “pensiero unico” nella dogmatizzazione del “marxismo leninismo”.

Riscoperta di Rosa

La riscoperta di Rosa Luxemburg, non a caso avvenuta nella temperie degli anni ’60, dopo decenni di vergognoso ostracismo, ripropone un pensiero antidogmatico, è una delle chiave per una riflessione e per la ricostruzione di un pensiero critico.

Altre strade, altri pensieri, altre prassi debbono però essere dialettizzati e non possono essere ridotti ad una notte in cui tutte le vacche sono nere.

Spero che vi siano spazio e interesse per discuterne.

Sergio Dalmasso
7 giugno 2020

Articolo catalogato in Archivio, Scritti storici, Schede e recensioni.

Novità Edizioni Punto Rosso

maggio 2020

Sergio Dalmasso

LUCIO LIBERTINI

Lungo viaggio nella sinistra italiana

Postfazione di Luigi Vinci

In appendice alcuni articoli di Libertini usciti sulla rivista “La sinistra

Lucio Libertini libro di Sergio Dalmasso

Lucio Libertini (Catania 1922-Roma 1993) ha militato, dall’immediato dopoguerra alla morte, nella sinistra italiana, da una corrente socialista minoritaria alla sinistra socialdemocratica, dall’eresia dell’USI di Magnani e Cucchi alla sinistra socialista, dall’eretica collaborazione con Panzieri al PSIUP, dal PCI a Rifondazione comunista.

Al di là delle banali accuse di essere uno “scissionista”, un “globe trotter della politica”, Libertini rivendicava una coerenza, una continuità davanti ai tanti che avevano modificato non sigle di partito, ma posizioni e scelte ideali, sostenendo una fedeltà ai propri riferimenti sociali e una linearità, nel doppio rifiuto dello stalinismo e della compromissione socialdemocratica.

Il suo grande attivismo, le capacità giornalistiche espresse da “Iniziativa socialista” a “Risorgimento socialista”, da “Mondo operaio” all’”Avanti!”, da “Mondo nuovo” a “Liberazione”, la intensa produzione di testi, sempre legati alla contingenza politica, ma molto spesso di prospettiva (per tutti le “Tesi sul controllo” e “Due strategie”) hanno fatto di lui, per anni, un riferimento importante.

Attualità di alcune tematiche

Se molte delle formazioni in cui ha militato sono oggi sconosciute ai più, sommerse nelle infinite scissioni, divisioni e rimozioni della sinistra, alcune tematiche mantengono una specifica attualità:

  • la ricerca di una via autonoma e non subordinata;
  • il legame costante con la classe;
  • la necessità di un protagonismo della stessa espressa dai suoi strumenti di controllo e di auto organizzazione;
  • una lettura dei temi internazionali che esca dai limiti del campo e dello stato-guida.

Il testo passa in rassegna “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra sinistra (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris) sconfitta ed emarginata, con opzioni differenti, ma capace di analizzare la realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

Attraverso il percorso di Lucio Libertini, il testo ripercorre mezzo secolo di storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, speranze, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.

Roberto Mapelli

***

L’autore

Sergio Dalmasso è nato a Boves (Cuneo). Vive a Genova.

E’ stato per quarant’anni insegnante di lettere nella scuola media superiore.

Militante della sinistra, dal movimento studentesco a Manifesto, PdUP, DP, Rifondazione.

È stato consigliere comunale, provinciale, regionale.

Già redattore di riviste storiche, si occupa di storia del movimento operaio, della sinistra politica e sociale in Italia, della stagione dei movimenti, di figure dei partiti di sinistra.

Ha recentemente pubblicato per la Redstarpress due biografie su Lelio Basso e Rosa Luxemburg.

Cura i quaderni “Storia, cultura, politica” del CIPEC.

Pagg. 250, 18 euro.

ISBN 9788883512414

Per ordinarne una copia scrivere a

edizioni@puntorosso.it

www.puntorosso.it/edizioni

 

 

Puoi acquistare il libro anche su Amazon

Di seguito gli interventi di Lucio Libertini nel consiglio regionale del Piemonte da consigliere del Partito Comunista Italiano 1975-1976 pubblicati nel quaderno CIPEC numero 67:

Download “Quaderno CIPEC N. 67 (Lucio Libertini. Interventi al consiglio regionale del Piemonte 1975-1976)”

Quaderno-CIPEC-Numero-67.pdf – Scaricato 11019 volte – 1,72 MB

E, un saggio su Libertini pubblicato su Critica Sociale (2023):

Download “Saggio su Libertini - Critica sociale, parte prima”

Critica-sociale-Libertini-Dalmasso-prima-parte.pdf – Scaricato 21329 volte – 190,45 KB

 

Lidia Beccaria Rolfi


Ho conosciuto Lidia Beccaria Rolfi. Partigiana, deportata nel lager di Ravensbrück, insegnante elementare, poi artigiana/negoziante
(mi scuso per la genericità) nella sua Mondovì (Cuneo).

Lidia Beccaria Rolfi - Scritte antisemite e svasticheAttiva socialmente, politicamente (PSI), culturalmente (ANPI, associazioni antifasciste).

L’ho vista la prima volta, studentello, nel 1965 in un incontro di ex partigiani con giovani studenti, nel ventennale della liberazione.

Carattere sincero e diretto, grande capacità comunicativa.

A lei si ispirò impropriamente Liliana Cavani per il suo “Portiere di notte”.

Efficacissima negli incontri pubblici, che già allora accusavamo di essere spesso retorici (ricordo una pagina – durissima – dei “Quaderni piacentini”).

Il suo libro “Donne a Ravensbruck” (1978) è la prima e resta la maggiore testimonianza sulla deportazione femminile.

(Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Beccaria Rolfi, Lidia ; Bruzzone, Anna Maria. Einaudi, 1978).

Lidia Beccaria Rolfi giovane

Lidia Beccaria Rolfi

Scrisse anche un testo sul suo difficile reinserimento nella vita civile, dalla gente che non voleva sentir parlare dei lager al provveditore agli studi che la trattò con sospetto in quanto ex partigiana.

Continuo il suo impegno contro il neo-fascismo, dalle proteste contro i comizi missini al quotidiano lavoro di testimonianza.

Leggo con orrore della SCRITTA di ieri sulla casa sua e del figlio Aldo.

Mi terrorizza il fatto che gli autori di queste nefandezze governeranno tra poco, che le politiche della “sinistra” e la nostra inettitudine abbiano spalancato loro la strada.

Soprattutto il senso comune per cui queste sono ragazzate e il termine “EBREO” è sempre più usato come insulto.

Agli/alle imbecilli ricordo che Lidia Rolfi fu deportata per motivi politici e non di razza, ma forse la cosa è troppo difficile.

Ricordo che i tentativi (Parri 1960, nuova sinistra 1975) di mettere FUORI LEGGE le strutture (oggi anche i siti) dell’estrema destra non hanno avuto seguito.

Oggi raccogliamo i frutti di questi errori.

Alla memoria di Lidia e al figlio un saluto.

A noi l’impegno di un vero antifascismo, non retorico, ma sulle questioni sociali.

24 gennaio 2020 – Sergio Dalmasso

Conferenza su attualità del pensiero di Antonio Gramsci

Conferenza su Gramsci, relatore Sergio Dalmasso

Il 18 gennaio 2020 si è svolta, presso il circolo PRC Antonio Gramsci Valpolcevera a Genova, una conferenza sull’attualità del pensiero di Antonio Gramsci.

Il relatore è il professore Sergio Dalmasso.

La sala del circolo è piccola, ma gremita di persone.

Download “Relazione su Gramsci Dalmasso (di D. Capano)”

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Il pubblico, purtroppo, con età media avanzata – anche se non manca qualche giovane – è fortemente interessato ad ascoltare lo stimato professore che da qualche anno dalla patria di Boves è ritornato nella patria dove nacque la mamma: Genova.

Conferenza su Gramsci

Il professore che certamente saprà dare loro qualche ulteriore chicca sul grande pensatore italiano, più tradotto e studiato nel mondo. L’amato pensatore comunista, Antonio Gramsci, a cui il circolo Valpolcevera è intitolato, il loro “nume tutelare” come detto dalla presentatrice della conferenza.

L’Altra Liguria ha predisposto finanche una diretta streaming con mezzi tecnologicamente carenti, con una scenografia scarsa rispetto ai video professionali a cui siamo abituati dai venditori, spesso del nulla, odierni.

Qui si è badato all’essenziale, al succo, alla storia, alla vita di Antonio Gramsci raccontata da Sergio Dalmasso come si raccontano le favole che poi diventano realtà, questa favola purtroppo con epilogo tragico.

E, comunque meritorio avere prodotto un video che ha fatto uscire dalla sala la conferenza, o come, ironicamente sottolinea Dalmasso, farà rimanere “in imperituro per i posteri” la conferenza e le parole in essa spese sulla vita del grande pensatore italiano; dirà Dalmasso “il più grande autore italiano del Novecento, come Leopardi  è stato genio dell’Ottocento”.

Attulità del pensiero di Gramsci

Dalmasso, nonostante le sue precarie condizioni di salute, è un gigante quando parla – è come se facesse il suo ultimo discorso; diventa avido di parole – con cui vi saprebbe giocare fermandole, misurandole, collocandole nel contesto adatto e con il giusto ritmo – grazie alla sua cultura e dunque confidenza che con esse vi ha, supportata dalla molta esperienza del suo vissuto.

Ha portato con sé dei testi, che potrebbero servirgli, ma ha tutto in testa; vi leggerà poche cose: la lettera di Gramsci alla madre quando arrestato è una di queste, la più commovente e la voce del professore lo testimonia.

Ci vorrebbero ore a disposizione del Dalmasso perché si possa placare nella narrazione che in questo caso riduce, e con maestria adatta agli astanti.

Ma, sa che potrebbe annoiare – non lesina, quindi, qualche battuta, per spezzare la narrazione che è divenuta lezione frontale a cui oggi non si è più abituati, o si sopporta per poco tempo.

Un applauso, convinto, del pubblico conclude l’interessante serata, e un sorriso aleggia intorno al viso del professore, dello storico: Sergio Dalmasso, come l’aleggiare della brezza del mare sardo, il mare che vide Gramsci giovane, in una bella serata in cui egli soltanto sa essere anche la data del proprio compleanno.

Su Facebook, la notizia del suo compleanno si diffonde; Sergio non ama in genere celebrarli, almeno in pubblico. Se ne accorge quando apre il computer la sera tardi. Sono tanti gli auguri che riceve e non può che esserne felice, se li merita. Due giorni dopo gli tocca replicare e lo fa con il suo consueto stile, con la sua consueta modestia che nel caso in oggetto non avrebbe alcun luogo a esservi, ma con il vero dice:

Ho ricevuto molti auguri per il mio compleanno

– dalla mia vecchia patria (Boves-Cuneo)

– dalla mia nuova patria (Genova)

– in qualche caso da Nizza (Francia) dove ho vissuto per qualche tempo

– – Gli anni sono tanti, direi troppi

– – La salute è quella che è e le prospettive non sono entusiasmanti

– – La situazione complessiva è drammatica e non dà grandi gioie.

In ogni caso, la vostra amicizia è molto importante e vi ringrazio sinceramente.

Torino, 21 gennaio 2020

Domenico Capano

Rivolta di Ungheria

La rivolta di Ungheria nella lettura di “Les temps modernes” (gennaio 1957)

È stato pubblicato nella rivista bimestrale Critica marxistaSartre e la rivolta d’Ungheria del 1956- 57” questo mio saggio archiviato nella sezione: Archivio – Scritti storici – Articoli e saggi di questo sito.

Download “Sartre e la rivolta d’Ungheria del 1956- 57 (in Italiano)”

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Rivolta d'Ungheria

Sergiio Dalmasso

Da wikipedia:

Les Temps Modernes

Storia

Il comitato direttivo fu fondato nel 1944 ed era composto da Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan e Jean-Paul Sartre. André Malraux e Albert Camus, per ragioni differenti, rifiutarono di parteciparvi.

Il primo numero (ottobre 1945) fu pubblicato da Gallimard, che stamperà la rivista fino a dicembre 1948. Da gennaio 1949 a settembre 1965 la rivista passò alle edizioni Julliard, quindi (da ottobre 1965 a marzo 1985) presso le Presses d’aujourd’hui per tornare alle edizioni Gallimard da aprile 1985.

Rappresentante del desiderio di “engagement”, o impegno sociale, unito ai temi dell’esistenzialismo francese, la rivista, nel secondo dopoguerra, fu vicina al Partito Comunista Francese (PCF), cosa che portò Merleau-Ponty ad allontanarsi nel 1953 (anche Raymond Aron preferì sottrarsi quasi subito, preferendo scrivere su “Le Figaro”).

Il suo momento di maggior lettura fu negli anni sessanta del XX secolo, quando aveva circa ventimila abbonati e appoggiò il FLN algerino.

Tra le sue firme più note ci sono state anche quelle di René Étiemble, David Rousset, Jean Genet, Raymond Queneau, Francis Ponge, Jacques-Laurent Bost e Nathalie Sarraute, ma vi apparvero anche opere e interventi di Richard Wright, Boris Vian, James Agee, Alberto Moravia, Carlo Levi e Samuel Beckett.

Nel 1996 festeggiò il cinquantenario con un dossier speciale (n. 587).

Tra i numeri tematici recenti quelli sul femminismo (n. 593, 1997), sulla letteratura noir (n. 595, 1997), su Georges Bataille (n. 602, 1999), Claude Lévi-Strauss (n. 628, 2004), Frantz Fanon (n. 635, 2006), sull’eredità di Simone de Beauvoir (n. 647, 2008), su Franco Basaglia (n. 668, 2012) o su Jacques Derrida (n. 669, 2012).

Anti-illuminismo della destra italiana

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana.

Anti-illuminismo della destra italiana. Liliana Segre con il padre

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana non già e non tanto per se stesse, per quello che sono, cioè come vittime della Shoah, ma per quello che esse rappresentano, ossia per la loro ebraicità.

È questo l’aspetto più inquietante della questione, perché ancora una volta, nonostante la dura lezione del recente passato, si indulge a prendersela non con le persone, con i singoli individui, bensì con la loro presunta razza.

Da questo atteggiamento platealmente razzista, si desume che il fondamento della destra italiana, benché non lo si dica ancora apertamente, è rimasto immodificato: è rimasto cioè nostalgicamente fascista, perché continua ad opporsi a uno dei principi dell’Illuminismo, a uno dei cardini dell’etica kantiana, che dice di

trattare le persone sempre come un fine e mai come un mezzo.

Ebbene, umiliando e sfregiando l’immagine simbolica di quelle due persone, la destra fascista italiana non fa altro che usarla come mezzo per ribadire ancora una volta, dopo quasi un secolo dalla marcia su Roma, che il progetto illuminista e internazionalista, filocomunista e filoebraico, insomma il programma democratico che la sinistra, assieme alle altre forze antifasciste, ha voluto attuare in Italia con la sua bella Costituzione democratica e repubblicana, è e resta un progetto sbagliato.

E ciò, secondo questa destra, esprime un giudizio che, nonostante i contorcimenti istituzionali sempre più difficoltosi e i giochi di palazzo, gli Italiani confermano quasi ad ogni turno elettorale.

Sarebbe pertanto auspicabile e legittimo per questa destra restaurare il progetto antitetico ad esso, ossia quello sovranista e neonazionalista, populista e neofascista, e quindi antidemocratico.

In tutto il mondo, peraltro, a partire dalle vecchie e dalle nuove superpotenze, non mancano i modelli a cui ispirarsi e da cui, sfruttando la naturale dialettica tra esse, ottenere eventuali sostegni concreti.

Ma per tornare al nostro strano Paese, che, da par suo, saprà certo plasmarsi un modello ad esso adeguato, magari sulla falsa riga del suo vecchio prototipo, l’auspicio è che questa nuova e probabile alleanza, questo nuovo asse, al quale orgogliosamente i sovranisti italiani credono di appartenere, non generi gli stessi risultati disastrosi che ha innegabilmente prodotto il precedente asse, sia sul piano militare che su quello economico.

La domanda pertanto è: vogliamo di nuovo diabolicamente ricadere nello stesso errore?

Se la risposta è sì, sappiamo già perlomeno quello che ci attende. Ma se la risposta è no, allora una sola cosa sembra ci resti da fare per salvarci da questa possibile sciagura – Kant, l’illuminista, l’autore del saggio sulla Pace perpetua, il filosofo il cui intero arco di vita è stato contrassegnato da continue guerre, lo sapeva bene: insistere sulla cultura.

Perché solo cittadini privi di memoria storica, di senso critico e di sensibilità possono assecondare propensioni miopi come quella stimolata ad arte dalla solita destra italiana fascista e velleitaria.

Se la nostra risposta è no, allora tra le priorità di governo, crisi o non crisi, ci deve essere assolutamente il sostegno all’istruzione e alla cultura.

Giacché solo la cultura ci può salvare da questo putridume, da questa china arida e scivolosa.

Franco Di Giorgi

1 novembre 2019

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Download “Anti-Illuminismo della destra italiana (di F. Di Giorgi)”

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Cittadinanza onoraria Marcello Martini

cittadinanza onoraria Marcello Martini

Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 4 maggio il Comune di Castellamonte ha conferito a Marcello Martini – deportato nel Lager di Mauthausen – la cittadinanza onoraria.

Un tale conferimento a persone come lui andava fatto non solo in segno di rispetto per quello che, assieme a tanti altri innocenti, ha subito in quei luoghi di tortura e di morte che solo l’altro ieri infestavano ed erano attivi in diversi Stati dell’Europa civilizzata (compresa l’Italia), ma soprattutto per un senso del dovere, per quello che egli è e per quello che ancora rappresenta nella storia del vecchio continente.

Per questa storia Marcello è e rappresenta un mártyros, ossia colui che nella lingua greca incarna ad un tempo il “martire” e il “testimone”.

Come tale, egli è una di quelle numerosissime vittime che rappresenta o ri-presenta (nel senso che ci fa ricordare) quella deviazione o aberrazione che solo una settantina di anni fa una certa quota di esseri umani aveva impresso all’umanità nel segno dell’annientamento, della distruzione e dell’autodistruzione.

In una parola, nel segno della Vernichtung o della Shoah.

Più che di un errore si era trattato infatti di un erramento, di un’erranza da un solco che fino a quel momento l’umanità aveva tracciato e coltivato per cercare di dare un senso a una delle domande più originarie e più profonde: “verso dove andiamo?”.

Con i propri occhi egli ha visto e sulla propria pelle ha sentito la Gewalt, la violenza tremenda che era stata necessaria per fare deragliare l’umanità da quel solco e per farla precipitare nella più squallida abiezione.

Gli esseri umani, infatti, ricordava Liana Millu (un’altra deportata, ma nel campo di Auschwitz), una volta sfruttati, venivano gettati via come degli obiecta, come degli oggetti, come delle cose, come delle sedie che, una volta rotte, si buttano via.

Si facevano delle cataste e poi vi si dava fuoco.

Per questo motivo la martyría, la testimonianza degli scampati al Nulla, al Nicht, è sacra, perché il loro martýrion, la loro esperienza vissuta e patita, per quanta passione essi mettano nei loro racconti e per quanta attenzione facciano coloro che li ascoltano, lo rammentavano amaramente sia Wiesel sia Améry, è difficile da dire e quindi da tramandare.

Le parole infatti, confessava lo stesso Primo Levi, funzionano male sia «per cattiva ricezione», «sia per cattiva trasmissione».

Questa confessione compare nella Prefazione che Alberto Cavaglion ha scritto per la pubblicazione della testimonianza di Martini: Un adolescente in Lager.

Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007). Il significato di questo sottotitolo è equivalente al titolo della prima testimonianza di Levi, Se questo è un uomo.

Vale a dire: gli occhi del quattordicenne Marcello (nato a Prato nel 1930, catturato il 9 giugno del 1944 e liberato il 5 maggio 1945) hanno visto e vissuto tutto il valore dubitativo implicito in quel “Se”: se questo è un uomo, com’è allora che egli può compiere sugli altri uomini quello che ha compiuto?

Com’è che, sebbene in modalità diverse, continua ancora a compiere?

E inoltre, quanto doveva odiare se stesso se, per quanto in generale di formazione cristiana, aveva messo da parte il principio “Ama il prossimo tuo come te stesso”?

È su questo dubbio atroce che si dovrebbe riflettere in maniera adeguata, e non solo in occasione della Giornata della Memoria. L’attualità (non solo politica), poi, ce ne dà quotidianamente spunto.

9 maggio 2019

Icona pdf Castellamonte cittadinanza onoraria a Marcello Martini

Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini:

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