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Giobbe e il reddito di cittadinanza

Franco Di Giorgi

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Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese (Deut., 15, 11).

 

Quella del reddito di cittadinanza è una questione biblica.

Se non altro perché il suo stralcio annunciato dall’attuale esecutivo mette in qualche modo in discussione anche l’idea che ci eravamo fatta in maniera critica del comportamento di Giobbe, ammesso che si consideri questo ish tam vaiashar, questo uomo integro e retto non già come la nota vittima della dolorosa verifica yahweico-satanica, ma come un facoltoso emiro arabo di Uz quotidianamente impegnato a fare beneficenza agli indigenti, agli ‘anawim e agli evionim, ai poveri e ai bisognosi.

Il problema della povertà nasce infatti con l’uomo, con le prime forme associate di umanità e si esprime nella continua ricerca di espedienti per superarla.

Oltre al tema centrale del valore della fede e della sua attestazione attraverso una evidente prova di forza, due altri aspetti emergono infatti dal testo biblico del Giobbe, anche se in maniera non del tutto evidente, due temi che corrispondono a due atteggiamenti assunti dall’Uzita e che risultano criticabili.

L’egoismo umano

Il primo tema è quello dell’egoismo di Giobbe rimproveratogli dall’amico Elifaz (nonostante le belle frasi ad effetto iniziali rivolte alla moglie: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, Giobbe non sa accettare anche su di sé quel male che Yahweh invia a molti altri); il secondo tema è quello, certamente poco evidente, dell’apparente altruismo o dell’umanitarismo assistenzialistico che egli mostra nei confronti dei bisognosi.

In quanto abbiente, ogni giorno infatti egli consola e aiuta con cibo e vestimenti i non abbienti che si presentano sotto il suo palazzo, e questo suo gesto, durante la sua rigogliosa vita, al lettore del libro non può che apparire degno di lode.

Apparente altruismo di Giobbe

Per Giobbe questo suo apparente altruismo sarebbe potuto durare a lungo se, solo per metterlo alla prova (una prova suggerita peraltro da Satana), attraverso una shechìn ra‘, una piaga maligna (assolutamente inattesa da Giobbe), Yahweh non lo facesse diventare malato e povero, proprio come quelli di cui egli prima si prendeva cura.

Sicché quando ora il caso o la stessa volontà di Dio gettano anche Giobbe in quella dolorosa disperazione, in quella inaccettabile insensatezza, insomma in quel destino crudele che continua ad accompagnare come un’ombra minacciosa la vita di tutta una moltitudine di gente bisognosa, ebbene ora egli si lamenta e se la prende con il suo Signore, se non altro perché non crede di meritare quelle dure condizioni di vita, da lui vissute come una punizione, quasi come un castigo per una colpa che in cuor suo pensa di non avere mai commesso e per questo esige almeno una spiegazione, ma solo dal suo Signore, non da altri.

Comunque sia, Giobbe smetterà di lamentarsi e di interrogare Dio con i suoi perché, cioè con i suoi làmmah e maddùa, solo quando, sfiancato da una malattia mortale (che Dio stesso però rende non mortale, nonostante il malato richieda di morire), prende coscienza del suo egoismo e umilmente si rende conto di essere come gli altri, anzi come tutto l’altro, come tutto quel creato rispetto a cui egli è quasi nulla.

Critica a Giobbe

La nostra critica a questo personaggio biblico (sviluppata qualche anno fa in Giobbe e gli altri) riguarda dunque questo suo egoismo e questo suo apparente altruismo, suggerendo che egli, proprio quando aiutava gli altri, quando le sue forze glielo permettevano ancora, doveva impegnarsi di più e fare in modo che quella disuguaglianza sociale venisse non alimentata ma eliminata.

Giacché qualsiasi rimedio alla povertà – compreso il reddito di cittadinanza -, senza una necessaria lotta alla disuguaglianza, non fa altro che prolungarla nel tempo.

La cosa diventa difficile se non impossibile quando alla ricerca di questi rimedi vi siano esecutivi che fanno della disuguaglianza una loro imprescindibile prerogativa, quasi un loro diritto fondamentale.

Una seria lotta alla disuguaglianza sociale presuppone una chiara volontà non di esclusione, di distinzione e di discriminazione, ma di integrazione, creando opportune e necessarie condizioni di lavoro che agevolino e non impediscano l’inserimento delle persone nelle attività produttive.

Articolo 3 della Costituzione

Una vera lotta alla povertà, specie per le persone che per motivi di salute non possono più essere reinserite nel mondo del lavoro, si realizza con l’intervento della Repubblica, come previsto soprattutto dall’articolo 3 della Costituzione italiana, ove si parla di parità nella dignità sociale, di eguaglianza davanti alla legge senza distinzioni personali e sociali.

Flat tax ossia disuguaglianza sociale

Lo spirito di solidarietà, peraltro, vivifica la nostra Carta costituzionale, a partire dall’articolo 2, ma diviene difficile se non impossibile ispirarvisi se l’esecutivo fa della competitività un merito e se dietro l’escamotage della flat tax nasconde la disuguaglianza fiscale, vale a dire l’intenzione di non perseguire gli evasori fiscali, soprattutto quelli grandi.

I cosiddetti “occupabili” diverrebbero invece subito degli “occupati” se i salari venissero aumentati in modo da permettere alle persone non di sopravvivere ai continui stenti, ma di vivere esse e di far vivere ai propri figli una vita dignitosa.

Certo, la dignità proviene dal lavoro, ma solo se il lavoro che si offre (ammesso che ve ne sia a sufficienza) è dignitoso.

E un lavoro è dignitoso quando, pur non corrispondendo alla vocazione o alla scelta dei singoli, consente ugualmente se non la realizzazione del sé, almeno l’affermazione di sé come cittadini responsabili e in grado di prospettare un minimo di futuro.

Negazione delle vocazioni individuali

Purtroppo però, per complesse ragioni di politica economica neoliberista, da tempo gli Stati hanno abbandonato l’idea di assecondare quelle scelte e soprattutto le vocazioni individuali, dal momento che il sistema competitivo capitalistico impone di considerare gli individui solo come utenti, come consumatori, come semplici utilizzatori, la cui formazione dipende dalle richieste del mercato.

Briciole per i meno abbienti

I cittadini, dunque, non avranno più bisogno del reddito se percepiranno uno stipendio più elevato rispetto alle attuali elemosine concesse a pioggia o una tantum dall’alto dei fastosi palazzi simili a quelli di Giobbe.

Molti dei percettori del reddito di cittadinanza infatti oggi lo usano come integrazione a un lavoro mal pagato.

Ed è in momenti di recessione come l’attuale che si coglie il grave peso dell’inflazione, allorché col venir meno dei supporti sociali (quale era un tempo lo strumento della “scala mobile”), con l’aumentare dei prezzi a causa della guerra e delle speculazioni ad essa legate, i salari restano fermi perdendo valore d’acquisto.

Le imprese italiane

Ma anche le imprese, si dirà, sono in crisi a causa sia dell’interminabile pandemia sia dell’inaccettabile guerra in corso in Ucraina, e quindi non sono in grado di garantire quegli aumenti.

È per far fronte a questa drammatica situazione economica che dovrebbe entrare in gioco lo Stato con i 209 miliardi del PNRR che il governo Conte 2 era riuscito ad ottenere dall’Unione europea.

Il governo Draghi rappresentava tutto sommato una garanzia per l’attuazione di questo Piano nazionale di ripresa e di resilienza.

Assurda legge elettorale italiana

Ma grazie a una legge elettorale assurda e al cronico scissionismo della sinistra, le destre, approfittando della prima occasione di crisi, sono potute finalmente andare al potere con il consenso, benché minimo, delle urne.

Tra i primi provvedimenti della legge di bilancio, come si è detto, lo stralcio definitivo nel 2023 del reddito di cittadinanza. Anche perché una delle conseguenze del protrarsi della guerra costringe a prendere atto dell’insufficienza dei fondi del PNRR.

Fallimento del piano PNRR

In tal modo, fatto salvo l’arricchimento dei soliti profittatori, con quello che resterà il Piano verrà realizzato solo in minima parte, con tanti saluti per la ripresa e per la resilienza.

I Giobbe di turno

Nulla cambierà e la ricchezza, anziché venire equamente distribuita, continuerà a restare e ad aumentare nelle tasche già piene dei Giobbe di turno, che, a parole e persino nei gesti (come certi lobbisti sanno fare), appaiono sempre altruisti e benefattori, difensori dei deboli, impegnati a combattere la disuguaglianza.

La questione del reddito ai cittadini poveri verrà ereditata dal prossimo esecutivo, rieletto magari con la stessa legge elettorale.

E avanti così con i carri, in attesa del prossimo giro della giostra.

Ma in quanto povere, le persone potranno ancora definirsi cittadini alla pari di altri meno poveri?

Potranno avere cioè gli stessi diritti? In teoria sì, ma in realtà?

Un altro decreto d’urgenza potrebbe evitare ogni eventuale ribellione.

Queste alcune premesse per progettare città contemporanee sul modello di Uz.

Ivrea, 21-12-2022. Franco Di GIORGI

Giò. Giobbe

Cari amici,

ho  il piacere di segnalarvi la pubblicazione del mio libro “Gio’. Un Giobbe del nostro tempo”. Già da ora è reperibile e ordinabile sul sito della casa editrice (Caosfera) e sul catalogo online ai seguenti link:

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Giò. Giobbe

Proprio come il Giobbe biblico, anche Giò si trova nel nostro tempo a dover fronteggiare in prima persona un’inattesa piaga maligna, una fragilità mortale, un destino crudele e inesorabile.

Con alcuni amici dibatte sulle imperscrutabili ragioni del destino e su altri temi filosofici come il morire e la morte, la vocazione e la verità.

E come nel testo veterotestamentario, gli amici mettono Giò, il malato terminale, dinanzi alle responsabilità del proprio passato, al tempo in cui erano gli altri a subire in silenzio un destino avverso.

Ritorna anche qui, infine, quella domanda, quel perché intrattenibile che né Giobbe né Giò seppero mai pronunciare a favore del dramma vissuto dagli altri.

Un caro saluto.

Franco Di Giorgi

Ivrea, 15 luglio 2021

PS.
Franco Di Giorgi (1954) è laureato in Filosofia all’Università di Torino e per più di vent’anni ha insegnato Storia e filosofia al Liceo scientifico “Antonio Gramsci” di Ivrea.

Ha sempre fatto interagire la memorialistica concentrazionaria e resistenziale con la normale didattica e con i suoi studi personali (confluiti in parte su articoli apparsi in diverse riviste), convinto che nessuna forma di cultura possa esimersi dal confronto con le questioni e con i valori fondamentali scaturiti dalla Resistenza e dalla Deportazione.

La sua riflessione si pone infatti alla ricerca di interferenze tra filosofia, memorialistica, esegesi biblica, estetica letteraria, artistica e musicale.

Giò

Un Giobbe del nostro tempo

 

Cari amici,

a metà luglio presso Caosfera Editore di Vicenza uscirà un mio nuovo libro. Si tratta di una pièce teatrale, di un dramma in tre atti ispirato al Giobbe: Giò. Un Giobbe del nostro tempo. Oltre che del testo biblico, la figura di Giò (immaginato come un ex guardiano del campo di Fossoli) risente del Job di Roth, della lettura di Primo Levi (che proprio nel Libro di Giobbe riconosce una delle sue radici) e di altri testimoni della Shoah. Il testo presenta anche due postfazioni come approfondimenti di alcuni temi trattati nel dramma. Allego la copertina, che riporta una breve sinossi e una nota biografica.

Tra i miei recenti scritti: Giobbe e gli altri (2016), Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso (2018); Hodós eirénes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (2019). Con Mimesis ho pubblicato Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen (2020). Sempre per Mimesis è in uscita Il Quarto Concerto di Beethoven come invito all’opera del pensiero.

 Un cordiale saluto.

Franco Di Giorgi

Ivrea, 23 giugno 2021

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Giò. Giobbe di Franco Di Giorgi commedia in tre atti

QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

Qualche sospetto

QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

Franco Di Giorgi

Nella storia della politica la strenua intransigenza rivoluzionaria e riformista, l’amore per la coerenza a tutti i costi, pur non volendo, ha spesso consegnato, in modi, tempi e contesti diversi, il popolo di una nazione alle forze reazionarie. Si pensi alla fine che, a partire dal 1794, il montagnardo Robespierre, l’Incorruttibile, ha fatto fare alla Repubblica francese. Oppure, alle conseguenze che ebbe la scissione del partito socialista a Livorno nel 1921. O ancora, più vicino a noi, la rottura di Bertinotti dal governo Prodi nel 1998.

Eppure oggi in Italia tutti possono vedere che si può ottenere il medesimo risultato anche con il contrario dell’intransigenza, cioè con l’inestirpabile trasformismo che, nel caso in specie, è anche impudico opportunismo politico. E ciò fino al punto di indurre un’intera classe politica ad annientare sé stessa, fino all’auto-interdizione, alla resa, a un plateale harakiri. Tuttavia, qui da noi, culturalmente poco avvezzi al senso del tragico, un Sansone non potrebbe morire mai con tutti i filistei, schiacciato sotto le colonne del palazzo del potere. Quanto accade e si ripete con una certa frequenza dalle nostre parti, soprattutto a causa di una pessima legge elettorale, induce piuttosto a pensare non già al possente eroe giudeo, ma a figure viscide come quella dello Jago shakespeariano, capaci di muoversi a loro agio nei meandri di leggi come quella, capaci come un ragno di tessere trame in grado di suscitare sentimenti deleteri e distruttivi, tali che, com’è noto, condurranno alla morte sia Otello sia l’innocente moglie di questi Desdemona.

Ma proviamo a ripercorrere per grandi linee la vicenda, prendendo spunto da alcuni momenti significativi della travagliatissima gestione del secondo governo Conte, momenti che destano qualche legittimo sospetto. Già al momento del suo concepimento, la maggioranza governativa si costituisce anzitutto grazie all’appoggio decisivo di Italia Viva. In tal modo per il segretario di questo piccolo partito si profila l’irripetibile occasione tanto attesa di usare l’arma del ricatto per poter finalmente appagare la sete di vendetta del suo ego per le battaglie politiche precedentemente perdute. In virtù di questo grimaldello, egli avanzava al governo richieste e critiche che, per quanto bizzarre, faceva discendere dal suo personale senso di responsabilità. La sicumera che sgomitando ostentava destreggiandosi impettito in queste continue e diverse richieste lasciava supporre che in sé egli maturasse un’idea delirante, quella secondo la quale così come aveva fatto nascere il governo allo stesso modo non avrebbe avuto scrupolo alcuno nel farlo cadere. E così è stato.

Il secondo sospetto riguarda l’opposizione. Anch’essa non si limitava più a porre critiche legittime al governo, ma si rifiutava di collaborare nella difficile gestione della pandemia, ostacolandone sistematicamente ogni provvedimento e assumendo platealmente posizioni persino negazioniste. A fronte di quanto accadeva nelle altre nazioni, qui da noi i sovranisti impedivano l’azione di governo, sicché, ad esempio, quando si parlava di chiusura loro erano per l’apertura e viceversa. In tal modo il governo doveva far fronte a due critiche contemporaneamente, una interna e una esterna. Critiche che col passare del tempo assumevano curiosamente un’analoga forma se non addirittura la stessa tattica ostruzionistica. Infatti, pur derivando da due fazioni opposte, queste due critiche ben presto finirono con il sommarsi, formando un fronte unico e assumendo la comune strategia tesa a far cadere il governo. Come se entrambe avessero ben chiaro in mente l’obiettivo che intendevano raggiungere, avessero già in serbo una nuova figura di primo ministro. E tutto ciò nel frattempo facendo finta che la crisi pandemica, con tutto il suo pesante carico giornaliero di morti, non esistesse. Contrapposizione politica che finì inevitabilmente con il riflettersi non solo sul dolente fronte critico del rapporto Stato-Regioni, ma anche sul fronte epidemiologico, con la dialettica semiseria tra virologi ottimisti a favore dell’apertura e infettivologi pessimisti che propendevano per la chiusura, creando così ancora più incertezza nei cittadini.

Ma i sospetti cominciano a prendere corpo e a rendersi visibili dopo che il presidente ancora in carica Conte riesce a convincere l’Europa a concedere all’Italia un cospicuo fondo finanziario di 209 miliardi di euro per fronteggiare le crisi e per pianificare la ripartenza del Paese. Solo dopo aver ottenuto questo fondo – cosa che a nessuno dei politici italiani e tanto meno ai leader delle due opposte opposizioni sarebbe mai riuscita, nemmeno nei sogni –, i due Mattei secondo il loro schema tattico, cominciarono di concerto a martellare, a chiedere altro, ancora e sempre altro: ora ad esempio volevano in coro il Mes. E così, non potendolo evidentemente fare l’opposizione esterna – la quale, visti i sondaggi sul voto, continua imperterrita a chiedere elezioni anticipate –, ecco che a dare la spallata decisiva al governo è l’opposizione interna, nella persona del suo leader, che nella conferenza stampa del 13 gennaio annuncia il ritiro dei suoi ministri dal governo, aprendo così di fatto la crisi di governo. Il 18 e il 19 l’attenzione dell’intero Paese viene pertanto deviata dall’emergenza Covid all’emergenza politica. In effetti le due crisi si sommano, la pressione sull’Italia si raddoppia, assume un grave peso. A causa dunque di una mossa troppo pericolosa per non suscitare qualche sospetto sulla sua arbitrarietà, compiuta da qualcuno la cui sicumera lascia sospettare che non si muovesse affatto al buio, l’Italia sta insomma per scivolare verso qualcosa di incerto (almeno per il popolo italiano), ritrovandosi dinanzi a problemi decisivi che ancora una volta dovranno essere affrontati e risolti dal Presidente della Repubblica, a un anno esatto dalla fine del suo mandato.

Due sono a questo punto i fattori che hanno reso evidenti lo scopo e la tattica assunta dalle due opposizioni, elementi che ormai vengono fatti propri dalla quasi maggioranza dei deputati e dei senatori: uno linguistico e uno, appunto, tattico. Tranne le forze politiche che sostenevano il governo e qualche altra piccola componente parlamentare, il resto dei politici ha perlopiù adottato un linguaggio duro ed offensivo contro la figura del Presidente del Consiglio (definito “avvocato” in senso sminuente e spregiativo): un linguaggio usato come un martello al solo scopo di demolirne la resistenza. Caduto lui, a forza di martellare con parole sempre più pesanti, sarebbe caduto tutto il governo: ecco la tattica strategica. Sicché, accecati dall’ira e rassicurati dalla loro vittoria dopo le dimissioni di Conte il 26 gennaio (l’esplorazione del Presidente della Camera Fico, dal 30 gennaio al 2 febbraio, sarà solo una proforma prevista dal protocollo), era inconcepibile da loro una pur minima idea di riconoscenza per un governo che, commettendo inevitabili errori, ha dovuto sobbarcarsi la fatica e il lavoro “sporco” che l’inatteso tzunami della pandemia ha comportato.

Ma a questo punto non si può non rilevare una contraddizione nell’azione dei demolitori. Infatti, pur essendo per un governo “forte”, sostenuti in ciò sia dai media che di parte della intellighentia critica, essi vedevano nei Dpcm uno strumento di accentramento politico, l’espressione di un potere personale che non teneva conto del Parlamento. E ciò dimostra ancora una volta che gli oppositori trasformavano ogni cosa in pretesto per chiudere definitivamente i conti con il Presidente del Consiglio in carica e con il governo tutto. A proposito del sostegno dei media, questa fretta nel mettere fine alla coalizione di governo, nonché la sicumera e la sfrontatezza verbale degli oppositori risultavano a volte comprensibili dal fatto che ogni tanto, mentre il governo arrancava sotto il peso dell’impegno gravoso, qualche giornalista, con un sorrisetto presupponente, evocava il nome di Mario Draghi come di un possibile e auspicabile salvatore della patria, come di un condottiero valoroso che da qualche tempo attendeva alle porte della città per intervenire con il suo esercito nel caso fosse necessario.

Ora, a cose fatte, a crisi avvenuta, queste voci giornalistiche si possono leggere come un preannuncio, seppur vago, di quanto accadrà il 13 gennaio. Come se tra queste voci dei media, la conferenza stampa del leader di Italia Viva e l’incarico conferito il 3 febbraio dal capo dello Stato all’ex presidente della Banca Centrale Europea vi fosse un legame sottile e quasi invisibile: un preaccordo, un “piano B” una volta fallito il “piano A” riguardante il possibile terzo governo Conte. Come se il destino di quest’ultimo fosse simile a quello di Giobbe, perché, come si è detto, molti elementi lasciano sospettare che tale destino fosse già stato previsto nelle sfere iperuranie. Scenario questo in cui Renzi appare come il Satana di turno, usato anche in questo caso da Yahweh o dai Signori dell’alta finanza per mettere alla prova non solo il governo giallo-rosso, ma anche per verificare la tempra dei singoli esseri umani, per giocare insomma con le loro vite, la cui qualità esistenziale scompare ogni sera dietro l’annuncio quantitativo del numero dei morti per Covid (il cui totale ammonta ormai a quasi cento mila). Al contrario dell’Avversario biblico, che non si arroga il merito di aver messo in crisi l’Uzita e con lui l’intera città di Uz, Renzi lo rivendica e come, dicendo in giro (persino in Arabia Saudita) che lui quella crisi l’ha suscitata non per sé e per le sue mire personali, ma per senso di responsabilità, per il bene del Paese. Eppure dalla sua cieca fiducia nei confronti di tutto quello che fin qui il Salvatore si è limitato solo a sussurrare, risulta ben evidente che l’opzione Draghi soddisfaceva sia lui che l’altro Matteo, in quanto, ognuno per il proprio interesse, pensano vivamente di ottenere, con le loro esibite adulazioni, un importante incarico nel prossimo governo. Nello splendore celeste di cui questo Professore pare circonfuso essi e tutti i loro amici oppositori cercano una luce in cui poter estinguere il buio in cui si agitano gesticolando umidicci; nella sua imperturbabile placidità agognano il mare in cui annegare la loro irrefrenabile irrequietezza; nella sua inarrivabile maturità essi vorrebbero nascondere la loro evidente Unmündigkeit, la loro immaturità; nella sua estatica beatitudine sognano persi un’oasi in cui ricercare la loro felicità perduta e la loro libertà ceduta. Per questo motivo, alla fine della loro affannosa corsa, nonostante l’apparizione di santa Dorotea o di san Maturino, forse troveranno ad attenderli le bolge concentriche dell’ottavo o del nono cerchio dell’Inferno, dove Dante colloca i fraudolenti verso chi si fida, i traditori e gli arroganti. Proprio per questo, ammoniva Primo Levi, si deve sempre diffidare dei “leader carismatici”, specie di quelli che hanno facilità di parola. Essi, diceva in un intervento del 1986, pensando al duce e al Führer, «possedevano un potere segreto di seduzione che non derivava dalla credibilità o dalla fondatezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo in cui le dicevano, dalla loro eloquenza, abilità istrionica, forse innata, forse acquisita pazientemente con l’esercizio. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse e in generale si trattava di idee aberranti o sciocche o crudeli. Eppure erano osannati e seguiti fino alla morte da milioni di fedeli».

Ivrea, 11 febbraio 2021

Mario Draghi Presidente del consiglio italiano

Dichiarazione del Prof Mario Draghi al termine del colloqui con il Presidente Sergio Mattarella,al Quirinale
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Franco Di Giorgi

Coronavirus

 

Coronavirus A che punto è la notte di Franco Di Giorgi

A che punto è la notte?

 

da’ al tuo dolore le parole che esige

(Macbeth, atto IV, scena III)

La velocità di diffusione di un virus che infetta le vie respiratorie di un essere umano fino a provocarne la morte è forse minore rispetto a quella con cui l’impollinazione e la disseminazione riproducono la vita. Quando però l’equilibrio coevolutivo tra differenti esseri viventi viene stravolto da una innaturale osmosi tra diverse specie di animali, allora la rapidità di quella diffusione aumenta rispetto alla riproduzione della vita. Da tempo, a fronte di segni evidenti di squilibrio naturale, gli esperti ci ripetevano quello che oggi purtroppo ci confermano: un tale squilibrio è provocato dall’evoluzione ecologicamente irresponsabile della specie umana, la quale ha nel frattempo imparato astutamente a difendersi da pericoli virali simili, cioè a differire nel tempo un’estinzione che meriterebbe per i danni che ha arrecato all’ecosistema, avendo approntato rimedi farmacologici in grado di proteggersi dai virus, ma non di liberarsene definitivamente. Già questo legittimerebbe a dire che la veloce diffusione virale della morte non è altro che il conseguente rovescio della medaglia, ossia il processo opposto a quello altrettanto veloce in cui si propaga la vita sulla terra; e che dovremmo almeno imparare a espiare le nostre colpe cominciando a ripetere le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! […] Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 1, 21; 2, 10).

La natura dell’agente patogeno sembra allora essere analoga a quella che ha il male per gli Epicurei e per Lucrezio, vale a dire razionalmente contrastabile, ma non eliminabile. Incapaci di autoriprodursi, questi virus sono dei parassiti che per sopravvivere e moltiplicarsi hanno bisogno delle cellule, di microrganismi vegetali o animali. Sicché senza un vaccino che possa frenarne o arrestarne il veloce ciclo riproduttivo dopo un periodo di incubazione, la loro infezione, cioè la loro azione patogena, può provocare altrettanto velocemente la morte degli organismi ospitanti. Così facendo, queste entità, che sono dell’ordine dei nanometri e che si possono considerare al confine tra il mondo dei viventi e il mondo dei non viventi, riescono ad assimilare a sé gli esseri umani, trasformandoli, anche solo nell’attesa forzosa e ansiosa della quarantena in casa, in altrettanti enti eraclitei oscillanti tra il vivente e il morente. Molti degli infettati infatti non sanno di esserlo e questa ignoranza è lo stratagemma che il virus usa per aggirare la nostra astuzia e per potersi propagare. Ma è grazie all’intelligenza, si legge ancora nel Giobbe (Gb 28, 28), che l’uomo può schivare il male che gli giunge dalla sua ignoranza; l’uomo che, si legge nel secondo coro dell’Antigone, pur non trovando scampo alla morte sa tuttavia trovare rimedio anche ai mali immedicabili.

 Come si vede, anche a questo livello biologico, siamo dinanzi a una lotta intima fatta di mosse e di contromosse tra il vivente e il non vivente, tra la vita e la morte. E se con Macbeth ci chiedessimo «A che punto è la notte?», con Lady Macbeth potremmo rispondere: «Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga». Solo che, direbbe Malcolm, «Lunga è quella notte che non riesce a trovare il giorno». Ci viene in mente il Macbeth solo perché lo abbiamo riletto di recente in vista della rappresentazione del 5 marzo al Teatro Stabile di Torino, saltata purtroppo proprio a causa del Coronavirus. Si tratta di astuzie, di inganni e tradimenti che in ogni tempo affliggono l’earthly world, il «mondo basso» in cui vivono gli uomini e nel quale, dice Lady Macduff, «le cattive azioni son spesso lodate, così come le buone s’hanno la reputazione di perniciosa follia»; un mondo (la Scozia degli inizi del Seicento) da cui il marito, il nobile Macduff, era fuggito disgustato dai vizi (evils) che ammorbavano la sua patria.

E in effetti, pur non potendo oramai sfuggire all’onda avvolgente del virus, a un simile autoesilio spingerebbero le basse astuzie di qualche nostro politicante, usando il proprio personale cavallo a dondolo come un cavallo di Troia: chi inserendo astutamente membri del proprio neonato partito nella compagine governativa, chi volendo a tutti i costi, in quanto opposizione, essere inserito nei prossimi dpcm, in modo da poter così predisporre le cose per il proprio futuro e, quel che è peggio, anche per quello dell’intero Paese. Sfortuna vuole infatti che tutta questa emergenza virus stia facendo andare le cose proprio nel verso che vorrebbero i sovranisti. Una volta superata questa crisi, approfittando dell’emergenza sbarchi, passata in secondo piano in questi giorni di lutto e di abbandono, essi sicuramente rimetteranno con maggior vigore il piede sull’acceleratore della paura e ogni loro richiesta in merito alla chiusura nei confronti di stranieri e migranti non potrà che essere assecondata. Dopo l’emergenza del Coronavirus riemergerà dunque l’emergenza dei flussi migratori, ma questa volta troverà ancora meno persone ad occuparsene, perché molti avranno timore di un qualsiasi contatto con gli stranieri, anche se il pericolo – questo ci ha almeno insegnato il Covid-19 – continuerà a provenire da noi stessi. Oltre all’emergenza virus e a quella migratoria, dovremo dunque ben presto ritornare a fare i conti anche con quella terza emergenza che abbiamo dovuto necessariamente accantonare, cioè quella altrettanto subdola dell’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Anche questa è infatti una pandemia virale.

30 marzo 2020

Giobbe di Roberto Anglisani

di Franco Di Giorgi

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Giobbe di Roberto Anglisani

 

A proposito del “Giobbe” di Roberto Anglisani

 

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Stupefacenti anzitutto due cose.

La prima: la capacità sintetica del Niccolini, il quale è riuscito con maestria a ridurre quel meraviglioso romanzo dello scrittore ucraino-austriaco, nel quale si condensa una molteplicità poliedrica di vicende che riflettono in parte la vita di Roth vissuta quasi da “ebreo errante”.

La seconda: l’abilità narrativa dell’attore, il quale ha saputo raccontare l’essenza di ogni singolo personaggio, prestando ad essi la voce e adattandovi l’inflessione tonale, senza mai cadere nel banale e nel ridicolo.

Anche perché la storia che egli raccontava, pur riguardando persone umili e semplici come Mendel Singer – ulteriore pseudonimo di Giobbe, che nel testo sacro viene presentato come ‘ish tam veiashàr, uomo integro e retto –, tratta in realtà di una tragedia, ossia della banalità attraverso cui si insinua e si manifesta non solo il tragico e il male, ma anche la dolorosa insensatezza dell’esistenza.

Sia Giobbe di Uz, sia Mendel Singer di Zuchnov, infatti, sono la simbolica attestazione del fatto che dinanzi alle dure prove che la vita riserva, l’uomo è tentato di negare un senso a ciò che invece, seppure difficile a vedersi, un senso ce l’ha e come.

Sono la rappresentazione del tentativo di voler ridurre e ricondurre, anche inconsapevolmente, il senso solo all’umano e non al divino, come se la dimensione del senso dipendesse solo dall’agire dell’uomo, ossia da un agire calcolabile e programmabile e non anche invece dall’intervento miracoloso del divino o del divino caso.

In fondo, malgrado la loro pur evidente e persino ostentata sottomissione al Signore, nonostante il loro timore e tremore dinanzi a Dio, i loro “perché?” – Làmmah? Maddùa’? – innalzati dai due sventurati come suppliche al loro Signore non esprimono altro che questa specie di hýbris ferita, ossia l’arroganza umana che si vede di punto in bianco privata della propria (illusoria) autorità in merito alla costituzione del senso.

Sia il dramma biblico sia la ripresa rothiana di esso, con modalità e con efficacia differenti, sono la drammatizzazione di questa specie di pólemos, di contesa sul senso: una drammatizzazione che gioca narratologicamente sulla possibilità del miracoloso e del sorprendente, capace di umiliare l’uomo (che è humus, polvere e cenere, è terra, adamàh) e di persuaderlo, malgrado la sua ostinata protervia, circa il fatto che non tutto dipende dalla volontà umana, e che quanto c’è di più importante per lui, vale a dire la sua vita e la sua morte, dipende sempre da altro.

Certo, sia Giobbe sia Mendel Singer sono profondamente devoti al Signore: la loro vita e la loro morte sono quotidianamente rimesse nelle sue mani.

Ma in virtù di questa assoluta devozione essi, ragionando con l’unica logica di cui possono disporre, ossia quella umana, che è quella del do ut des, del dare per avere, si aspettano con una certa pretesa che Dio li tratti diversamente dagli altri che sono meno fedeli di loro.

Quanto meno, dopo l’abbattimento su di essi dello spaventoso inatteso, dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, insomma del disumano, essi si attenderebbero che Dio si abbassasse verso di loro e spiegasse per filo e per segno i motivi di cotanta durezza, mostrasse loro dove esattamente e cartesianamente hanno sbagliato per meritare questo castigo, questa pena insoffribile, questa assurda prova.

Come se l’essere umano, gettato in un mondo in cui tutto è destinato alla consunzione, potesse con i suoi pharmakoi, con i suoi cataplasmi medicamentosi sempre più efficaci, sfuggire alla distruzione e all’annientamento.

Eppure, non si avvede l’uomo che la vita altro non è che un diuturno sfuggire alle grinfie della morte?

Non si accorge Giobbe che molti dei miserabili che tenta di salvare scompaiono nel nulla?

Eppure egli, secondo il Job di Fabrice Hadjadj, non sembra essere così ipocrita come i suoi amici.

E poi, non si rende conto Mendel di quanto egli sia debole e impotente di fronte al destino dei suoi figli e di Menuchim in particolare?

Egli infatti non ha la forza dell’Abdia (altro nome per Giobbe) di Adalbert Stifter né quella di sua moglie Deborah, non sa comprendere la saggezza della femme de Job nella pièce di Andrée Chedid.

La speranza è l’ultima a morire: questo ci trasmette il mito giobbico, specie nella bella e luminosa versione di Joseph Roth.

Il messaggio che esso ci tramanda, pur in quest’epoca della postverità e dell’assenza del divino, ribadisce un principio che sembra essere inscritto nel dna dell’uomo, un principio che, proprio per questo, la dura realtà satanica non riesce a smontare e a cancellare, non riesce a farla passare come una fake news: il principio della necessaria priorità del negativo, secondo cui il senso si può rivelare all’uomo solo nel e attraverso il dolore.

28 febbraio 2019

 

GIOBBE Storia di un uomo semplice / Teatro d'Aosta 2017:

Stupore dell’orrore

Per il centenario della nascita di Primo Levi

di Franco Di Giorgi

 

Stupore dell’orrore. Per il centenario della nascita di Primo Levi

 

 

Non aveva torto Pikolo (Jean Samuel) quando diceva che Primo Levi sarebbe divenuto lo stesso un grande scrittore anche senza l’esperienza concentrazionaria. Lo stesso Pikolo, fra l’altro, aveva ammesso di essere “diventato più sensibile alla musica dopo essere passato per Auschwitz” (Mi chiamava Pikolo, 2008).

E anche Levi ammetteva una cosa simile quando nell’Appendice a Se questo è un uomo osservava che il Lager era stato per lui una specie di università, poiché “vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, h[a] imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”.

Dal canto suo, invece, Jean Améry aveva confessato che lasciando Auschwitz non era diventato né saggio né profondo, ma solo più accorto (Intellettuale a Auschwitz, 1991).

Ora, è lecito pensare che un uomo possa definirsi ‘scrittore’ quando riesce ad esprimere il vero sé a se stesso e che ciò non dipenda tanto da quello che scrive, ma dal suo proprio stile letterario, che riflette e rivela a se stesso, come in uno specchio, quel sé.

Ammesso che una tale definizione sia condivisibile, essa senza dubbio si attaglia perfettamente allo stile, tra il sentenzioso e il profetico, dello scrittore torinese.

Questo stile si nota subito, già nel primo capitolo di Se questo è un uomo – un’opera scritta di getto, subito dopo il ritorno dal Lager, sotto l’impulso irrefrenabile del dover testimoniare.

Il capitolo s’intitola “Il viaggio”. In esso Levi ci parla del suo doppio viaggio: quello che, dopo l’arresto (13 dicembre 1943), lo portò da Torino a Fossoli (fine gennaio 1944) e quello che da Carpi (il 22 febbraio 1944) lo condusse ad Auschwitz (26 febbraio, esattamente 75 anni fa) assieme ad altri 650 deportati.

Di questi, ci informa Italo Tibaldi, in Compagni di viaggio, solo in 24 riuscirono a sopravvivere sino al momento della liberazione del campo (27 gennaio 1945).

Oltre Levi, sopravvisse anche la sua amica Luciana Nissim. Impressionanti i versi di una canzone del campo che la deportata ha posto come esergo ai suoi Ricordi della casa dei morti: O Auschwitz, ich kann dich nicht vergessen, weil du mein Schicksal bist (O Auschwitz, io non posso dimenticarti, perché sei il mio destino).

Due “vite parallele” le definisce tra l’altro Alessandra Ginzburg in un contributo per un convegno dedicato alla psicanalista (Luciana Nissim Momigliano, 2012), non solo perché entrambi furono per circa un mese nel campo di Fossoli, ma soprattutto perché pur dentro all’orrore di Auschwitz, catapultati nel mondo alla rovescia, tennero ugualmente viva la volontà di capire e di conoscere.

E poi anche perché entrambi furono “salvati dal loro mestiere”: lui chimico, lei medico.

Ad ogni modo, dopo aver appreso la testimonianza di Levi si è portati a ritenere che per ognuno di noi c’è un padre carnale e un padre spirituale. Pur ammettendo che è il primo ad averci, consapevolmente o meno, donato l’esistenza, è senz’altro al secondo che si deve il risveglio spirituale ad essa.

Non basta, infatti, il primo vagito, il primo pianto o il primo amore puro a destare l’essere umano alla vita, perché, proprio in quanto puri (e qui pensiamo esattamente al “dolore allo stato puro” provato da Levi nei suoi sogni d’angoscia subiti durante le notti di Auschwitz) essi mancano di consapevolezza.

A suscitare questa consapevolezza, a farci prendere atto dell’esistenza e del fatto che siamo coscienza, è la riflessione non già su una singola persona e nemmeno su un intero popolo, bensì sull’essenza umana.

A questa essenza si riferisce Piotr Rawicz, la quale, però, secondo lui, è rappresentata dal popolo ebraico: “il fato e la condizione del popolo ebraico – osserva lo scrittore ucraino – sono la vera essenza della condizione umana” (cfr. David Patterson, The Shriek of Silence, 1992).

Ecco, lo stile di Levi risulta sentenzioso e profetico perché è solo a quest’essenza che egli si riferisce nelle sue pagine: ad essa rivolge le sue angosciose domande con la stessa drammatica disperazione con cui Giobbe rivolge le sue a Yahweh, con essa si confronta e in essa cerca le risposte.

E quando, a causa dell’orrore e della violenza – certo più incisive della tenerezza e dell’amore – questa essenza viene destata dalla sua purezza, allora si genera quello “stupore profondo” che Levi – in sympátheia con quel “destino di massa” di cui parlava Etty Hillesum – credette di sentire assieme a tutti gli altri deportati già alla stazione di Carpi, prima di affrontare la seconda parte del suo viaggio verso Auschwitz.

Uno stupore analogo a quello che, nella sua essenza, provò Jean Améry: “Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte”.

22 febbraio 2019

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Se questo è un uomo – Primo Levi

Renato Marchiaro il partigiano calciatore

È online il quaderno CIPEC Numero 61 in gran parte dedicato a Renato Marchiaro il partigiano calciatore che iniziò la sua carriera calcistica con la Juventus nel 1937.

Download “Quaderno CIPEC N. 61 (Partigiano calciatore Renato Marchiaro)”

Quaderno-CIPEC-Numero-61.pdf – Scaricato 1208 volte – 10,26 MB

Racconti inediti della vita di Marchiaro vi si trovano in esso scritti dallo stesso Renato.  Bovesano, recentemente scomparso a Nizza all’età di 98 anni.

“Iniziò la sua carriera calcistica con la Juventus nel 1937, trasferendosi in seguito in altre squadre italiane quali lo Schio e il Liguria.

In totale nella massima serie professionista totalizzò 8 presenze ma nessun gol. A causa della seconda guerra mondiale interruppe la carriera calcistica nel 1943, riprendendola poi in Francia nel 1946.

Giocò nell’Antibes, nel Nizza e nell’Olympique Alès, totalizzando nel periodo francese 44 presenze e 13 gol.”

Renato Marchiaro il Partigiano Calciatore. Copertina del Quaderno CIPEC Numero 61

Biografia secondo Wikipedia

Durante la Seconda guerra mondiale, a seguito del proclama Badoglio dell’8 settembre 1943 si unì alla Resistenza unendosi alla “Banda Vian” guidata da Ignazio Vian con il nome di battaglia di “Fede” e fu uno dei pochi sopravvissuti all’eccidio di Boves. Successivamente si unì alle Brigate Garibaldi.

Durante la sua militanza nel Nizza incontrò la sua futura moglie e al termine della sua carriera agonistica tornò nella città della costa Azzurra, ove, dopo aver lavorato per una compagnia petrolifera, comprò l’Hôtel des Mimosas.

È morto a Nizza nel 2017 all’età di 98 anni.