L’anormalità e l’ambiguità della situazione italiana

Franco Di Giorgi

Anormalità ambiguità italiana Giorgia MeloniAnormalità ambiguità italiana; nelle elezioni politiche del 25 settembre 2022, dei 51 milioni di Italiani aventi diritto si è recato alle urne solo il 63,7% (nelle precedenti elezioni del 2018 era il 73%), ossia 32,64 milioni di persone.

Ciò significa che il 37% degli Italiani non ha votato o ha lasciato scheda bianca.

Questa percentuale equivale a 17 milioni di cittadini. Dei 32,64 milioni, un po’ più di 12 milioni di voti sono andati al centro-destra, i restanti 10 milioni al centro-sinistra e al M5s. Il Rosatellum, la legge elettorale ancora in vigore, consente di governare a chi prende più voti.

In Italia, in un Paese di 51 milioni di aventi diritto di voto, governa dunque la coalizione che ha preso 12 milioni di voti a fronte di 32,64 milioni di votanti, perché 17 milioni non ha votato. Il numero degli astenuti è quindi maggiore sia di quello di coloro che hanno fatto vincere il centro-destra sia di quello di coloro che, per la miopia dei loro leader, non sono riusciti a far vincere il centro-sinistra.

Sicché 12 milioni di votanti determinano la direzione politica dell’intero Paese, cioè la vita di 59,11 milioni di abitanti (dati del 2021). Circa un quinto della popolazione elegge un governo che sfacciatamente sembra fare delle leggi solo per quelli che l’hanno eletto e non per tutti gli altri.

In un Paese normale questo non dovrebbe accadere, perché un governo democraticamente eletto deve governare per tutti, non solo per pochi. Anche se coloro che l’hanno eletto hanno convinzioni e interessi non solo differenti da tutti gli altri, cioè dalla maggioranza del Paese, ma diversi anche rispetto al dettato della Costituzione, che è la Carta di tutti gli italiani.

Ma tant’è. A sostegno di quella anormalità, l’attuale Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana ha infatti recentemente dichiarato: “Io sono stata votata e faccio quello per cui mi hanno scelto gli italiani” (“L’inchiesta”, 10 febbraio 2023). Lo ha detto a Bruxelles, al vertice straordinario europeo del 9 febbraio, durante il quale si sentiva più vicina al gruppo di Visegrád che non alla Francia e alla Germania.

D’altronde è da un po’, almeno dal 2004, che si parla di Europa a due o tre velocità, di Stati dell’Eurozona e di Stati che, pur facendo parte dell’Europa, non adottano l’euro, come ad esempio la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia, la Romania.

La vicinanza dell’Italia al gruppo di Visegrád dipende sia dalla politica migratoria e dei richiedenti asilo, sia dalla politica relativa ai diritti civili. La sua distanza da quel gruppo, invece, almeno dall’Ungheria, dipende dal diverso allineamento alle due superpotenze impegnate nel loro ennesimo scontro, stavolta in Ucraina.

Da questo punto di vista, infatti, l’Italia è lacerata: da un lato si sente vicina all’Ungheria, dall’altra non può che essere vicina al blocco franco-tedesco e all’intera Unione Europea. L’Ungheria sostiene la Russia. L’Italia e tutti gli altri Paesi europei sostengono invece gli Stati Uniti, auspicando l’ingresso dell’Ucraina nella Nato.

Questa sua lacerazione è quindi duplice, perché in rapporto alla guerra russo-ucraina è con gli Stati Uniti, con l’Europa e con la Polonia, mentre in rapporto sul tema della migrazione e dei diritti civili è con l’Ungheria e quindi con la Russia e con la Polonia, ma non con il resto dell’Unione Europea.

L’attuale governo italiano è pertanto costretto a muoversi ambiguamente, cioè a giocare contemporaneamente su due tavoli, quello nazionale e quello internazionale.

Un gioco peraltro non nuovo nella storia politica da cui proviene l’ala di estrema destra di questo governo, specie durante i primi anni di politica interna del governo fascista, un secolo fa.

Da un lato, infatti, il duce doveva mostrare un volto legalitario e istituzionale, dall’altro e contemporaneamente non poteva non dare ascolto alle pretese di quelle squadracce che lo avevano alacremente sostenuto nella sua elezione.

Come in passato, come un secolo fa, non si può inoltre non notare in maniera sempre più evidente il delinearsi sulla scena internazionale di due alleanze, di due coalizioni opposte all’interno della stessa Unione Europea, pronte a fronteggiarsi non solo con le armi della politica, ma anche purtroppo, specie in questo clima surriscaldato dalla guerra in Ucraina, con armi vere e proprie.

Avendo con ciò alle spalle non solo le due solite superpotenze, ma anche altre nuove superpotenze, dotate anch’esse di testate nucleari.

Le premesse per il Terzo conflitto mondiale (forse l’ultimo), come si vede, ci sono tutte. Compresa quella dell’immancabile capro espiatorio, cioè dei senza patria, dei più deboli, dei perseguitati, degli scarti di un’umanità spersonalizzata, pronta ad essere sacrificata ancora una volta sull’altare delle nuove patrie sovraniste.

Ivrea, 31 maggio 2023

Pubblicato su www.sergiodalmasso.com

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La scelta di Sophie, saggio di Franco Di Giorgi

Il saggio del prof. Di Giorgi è stato pubblicato nel quaderno cipec numero 52

Quaderno a stampa, marzo 2014, Centro Stampa della Provincia di Cuneo

La scelta di Sophie di Franco Di Giorgi

Dal romanzo di William Styron, Sophie’s Choice, la cui prima edizione è del 1976, nel 1982 ne è stato tratto un film che valse il premio oscar alla grande Meryl Streep, attrice protagonista di Sophie.

Traduzione in italiano del dialogo nel breve filmato tratto da “La scelta di Sophie”, sopra mostrato (dal tedesco – nella traduzione inglese vi sono degli errori):

Hauptsturmführer: Lei è così bella,
Hauptsturmführer: vorrei portarti a letto, a fare …
Hauptsturmführer: Sei polacca?
Hauptsturmführer: Tu!
Hauptsturmführer: Sei anche tu una di quei sporchi comunisti?
Sophie: Sono polacca!
Sophie: Sono nata a Cracovia. Non sono ebrea, neanche i miei figli!
Sophie: Non sono ebrei, dal punto di vista razziale sono puri!
Sophie: Sono cristiana! Sono cattolica praticante!
Hauptsturmführer: Ma tu non sei comunista?
Hauptsturmführer: Tu credi in …
Sophie: Sì, sono credente in Cristo.
Hauptsturmführer: Tu credi in Cristo, il Redentore?
Sophie: Sì.
Hauptsturmführer: Lui non aveva detto “Lasciate che i bambini vengano a me”? Tu puoi tenerti un bambino.
Sophie: Come, per favore?
Hauptsturmführer: Tu puoi tenerti uno dei tuoi bambini. L’altro deve scomparire.
Sophie: Ma Lei dice che devo scegliere?
Hauptsturmführer: Lei è polacca non ebrea.
Hauptsturmführer: Allora ha un certo privilegio, un diritto di prelazione.
Sophie: Non posso scegliere!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer:Stia zitta!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Via, le mando via ambedue!
Hauptsturmführer: Faccia una scelta!
Sophie: Non posso scegliere! Non posso!
Hauptsturmführer: Mando ambedue in là.
Sophie: Noo!
Hauptsturmführer: Smetti adesso! Chiudi il becco e scegli! Dai deciditi e scegli!
Sophie: Non mi faccia scegliere, non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Mandi ambedue di là!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Prenda ambedue i bambini! Su!
Sophie: Prenda la piccola!
Sophie: Prenda la mia piccola!

***
parte 2 del saggio di Franco Di Giorgi :

2. Insieme a molti prigionieri, tra cui Wanda e altri componenti della resistenza polacca, il 1º aprile 1943, Sophie Zawistowska giunge con il treno sino all’interno del Lager di Auschwitz-Birkenau.

Una volta scesa sulla banchina ferroviaria, si trova dinanzi un giovane Hauptsturmführer, dottore in medicina, medico addetto alle selezioni.

Stingo – l’io narrante e protagonista egli stesso del romanzo – lo battezza Fritz Jemand von Niemand: letteralmente ‘Qualcuno di Nessuno’, qualcuno che viene dal nulla; Jemand von Nichts si potrebbe dire, o meglio ancora Jemand von Nacht, qualcuno che proviene dalla notte, perché Sophie in due anni di Lager non era mai riuscita a conoscerne il nome.

Mutuando poi un’espressione heideggeriana si potrebbe definirlo Platzhalter der Nichts o Platzhalter der Nacht, sentinella del niente o sentinella della notte.

E per un filosofo come Heidegger attento alle etimologie e alle radici greche della lingua germanica, per un pensatore che ha saputo cogliere la coincidenza tra Geschichte e Geschick, tra storia e destino, non doveva essere poi tanto difficile individuare anche quella tra Nichts e Nacht. Sophie vi giunge con i suoi due figli, Jan, il maggiore, di dieci anni, ed Eva, di otto.

Essa viene catturata non perché ebrea né perché oppositrice del regime nazista, ma solo perché nascondeva sotto il vestito una coscia di prosciutto per la madre. Tutto il cibo allora, secondo le esigenze belliche, veniva requisito dai soldati tedeschi.

Sophie è una giovane polacca molto bella, figlia unica di due professori universitari: il padre, Zbigniew Biegański, docente di giurisprudenza all’antica università jagellona di Cracovia e antisemita per convinzione; la madre docente di musica presso la medesima università.

Già nel 1938, il padre aveva scritto un piccolo libello (Die polnische Judenfrage: Hat der Nationalsozialismus die Antwort?) nel quale delineava l’abolizione totale o la soluzione finale degli ebrei di Polonia, individuando alcuni luoghi di deportazione, fra cui il Madagascar.

Egli aveva voluto che sin da giovanissima, a sedici anni, Sophie imparasse la stenografia e la dattilografia. Fu essa infatti che trascrisse e batté a macchina tutte le idee antisemite del padre, aiutandolo persino a diffondere il libretto stampato in proprio nelle università di Cracovia. Anche il marito di Sophie, Kazik Zawistowski, era antisemita, e divenne ben presto collaboratore zelante del suocero.

Quando nel settembre del 1939 i tedeschi invadono la Polonia e il Capo della sezione giuridica del Partito nazionalsocialista, l’avvocato ebreo – «mirabile dictu»! (p. 301) – Hans Frank, insediatosi nel castello della Wawel di Cracovia, divenne il governatore della Polonia occupata (ossia della parte occidentale che, appena un mese prima, Hitler, con il patto Ribbentrop-Molotov, aveva ottenuto dall’accordo con Stalin), l’intellighentia universitaria di Cracovia e polacca in generale fu logicamente la prima ad essere arrestata e deportata nel campo di Sachsenhausen, creato dalle SA nel 1935-36 al posto di quello di Oranienburg, a nord di Berlino.

Lager nel quale, provenendo dalla scuola di Dachau, Rudolf Höss, dal 1° agosto 1938 svolge la mansione di amministratore del comandante e di Schutzhaftlagerführer, segretario addetto al disbrigo della corrispondenza ufficiale con le autorità esterne. A nulla, ovviamente, valsero le proteste del prof. Biegański e di suo genero: entrambi trovarono la morte in quel Lager.

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25 aprile

Franco Di Giorgi-Primo Levi

Per un altro 25 aprile “a distanza”, insieme a Primo Levi

A proposito di una mostra on-line a cura dell’Anpi.*

Mostra a Ivrea sulla festa della liberazione

«L’arte e la scienza» si legge al primo comma dell’articolo 33 della nostra Costituzione «sono libere e libero ne è l’insegnamento». Questo il principio, il fondamento. Dalla nostra storia e soprattutto dalla nostra Resistenza, dalla quale esso è sorto, apprendiamo però che non c’è e non ci può essere in generale libertà alcuna senza l’esperienza liberatoria e liberante della lotta per la liberazione. Liberazione anzitutto dal nazifascismo, i cui effetti, nonostante un secolo dalla fondazione e i 76 anni dalla fine della guerra, continuano ancora a farsi sentire su di noi, così come si sentivano sui giovani di allora. «Ci proclamavamo nemici del fascismo» annotava Primo Levi ne Il sistema periodico (Oro) «ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici».

Ebbene, non potremmo forse dire la stessa cosa noi oggi, sotto i colpi del Coronavirus, di un nemico invisibile che ci costringe a una nuova forma di Resistenza passiva? Passiva e deteriorante, simile nella sua inconfrontabilità all’esperienza vissuta dai deportati, e quindi – confessa Levi in una intervista concessa nel maggio del 1986 a Ferdinando Camon, a proposito della pubblicazione de I sommersi e i salvati – differente da quella attiva e vittoriosa vissuta dai partigiani (cfr. G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992).

Il distanziamento non accresce forse la nostra estraneità, non approfondisce la nostra reciproca sospettosità, non alimenta l’intolleranza? «L’intolleranza – fa notare infatti Levi nel capitolo de I sommersi e i salvati dedicato al problema della comunicazione – tende a censurare, e la censura accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare».

E questa viziosa circolarità centrata sull’intolleranza non ricalca forse quella pendolarità della violenza preventiva che alimenta anziché smorzare la violenza stessa? Un simile vizio circolare ci sembra poi che si possa cogliere anche in rapporto all’uso contemporaneo del linguaggio. A causa del suo estremo semplificarsi richiesto dalle prestazioni tecnologiche sempre più avanzate, come pure a causa del moltiplicarsi delle emergenze nel presente, pur volendo progettare un futuro possibile e pur volendo recuperare un passato memorabile, alla fine non può fare altro che appiattirsi sul presente e sulle sue esigenze costantemente critiche.

E la precarietà, l’incertezza della vita e del domani, specialmente per quanto riguarda i giovani, non ci rende forse più superficiali, più passivi e soprattutto più cinici? Forse proprio ai giovani di oggi, certo non per colpa loro, manca quello che, nella primavera del ’45, in un campo allestito dai russi liberatori, Levi aveva colto nella diciottenne ucraina Galina (la giovane impiegata de La tregua) «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti» (Katowice). I giovani degli anni ’80, scriverà ancora Levi nella Conclusione de I sommersi e i salvati, tendevano a non interessarsi dell’esperienza concentrazionaria vissuta solo quarant’anni prima dai deportati nei Lager nazisti, perché «assillati dai problemi d’oggi». Si tratta, precisa, di «una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge».

Insomma: i segni di questa emergenza pandemica non sono forse quelli stessi che ha lasciato in noi il fascismo? Anche noi che ci proclamiamo antifascisti dobbiamo quindi porre attenzione all’emergenza Covid-19 – ecco il senso dell’avvertimento che cogliamo nella testimonianza di Levi –, perché da questa pandemia, come si vede, si creano impercettibilmente le condizioni, l’humus venefico per l’insorgenza di quell’erba malsana, della quale tanta fatica è costato lo sradicamento.

Com’è noto, inoltre, una tra le più profonde e dolorose ferite che questo virus ha scavato nel tessuto sociale è sicuramente quella dell’ineguaglianza, piaga che si apre come un ampio solco in cui facilmente possono attecchire i semi di quell’erba velenosa. Un disvalore che, per potersi radicare meglio, quell’erba è capace di trasformare in discriminazione sociale e perfino razziale. Nel 1976, al teatro Carignano, in occasione della presentazione de Il sistema periodico, Levi a tal riguardo ammoniva: «Il sentiero in discesa che comincia dalla negazione dell’uguaglianza tra gli uomini, finisce fatalmente nella perdita della libertà e nel Lager». E l’esperienza dei deportati, come ricorderà, è «esperienza passiva e deteriorante», mentre quella dei partigiani è «esperienza della lotta vittoriosa». Ma il Presidente Ciampi nel 2000 volle rimarcare il fatto che i primi segni della Resistenza, oltre che nella scelta partigiana dei civili l’8 settembre, compiuta dallo stesso giovane Levi, e nelle quattro giornate di Napoli, si vide anche nella maggioranza degli internati militari italiani che vennero rinchiusi negli Stammlager e negli Offlager tedeschi perché si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e quindi al nazifascismo.

Ad ogni modo, una volta ripulito il terreno da quell’erba infestante, da quell’invadente gramigna, nonostante la stanchezza accumulata durante il ventennio e soprattutto nei lunghi cinque anni di guerra, tra cui l’odiosa coda della guerra civile, più facile sembrò ai nostri padri, ai padri fondatori, la ricostruzione: allontanandosi da quel passato torbido, essi, anche grazie al piano Marshall, poterono guardare a un futuro più radioso con fiducia, speranza e leggerezza. Ma oggi, ad appena un anno dall’esplosione della pandemia, siamo già molto provati e soprattutto cupi, perché sembra che essa, con le sue ferite, con i suoi 120 mila morti, ci stia di nuovo riportando nostro malgrado verso un futuro che sa molto di quel passato buio. Dinanzi a questo grave e attuale disagio nell’affrontare l’avvenire, le parole chiare e oneste di Levi ci vengono incontro: «Il domani» ci ammonisce ne L’altrui mestiere (1985) «dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni».

Ecco allora l’intervento quasi sempre provvidenziale dell’arte. Anche quando rievoca il passato, essa è sempre al contempo una messa in discussione del presente, una prefigurazione critica del futuro, allusione a dimensioni altre, a spazi di libertà impensati, a eventi inauditi. Anche a questo proposito, il testimone e scrittore torinese è molto schietto. In uno dei suoi racconti postumi (Auschwitz, città tranquilla) osserva: la pagina documentaria «non possiede mai il potere di restituire il fondo di un essere umano: a questo scopo, più dello storico e dello psicologo sono idonei il drammaturgo e il poeta». E noi, per questo secondo 25 aprile a distanza e segnato dalla pandemia, potremmo aggiungere a buon diritto anche i dieci artisti che hanno accettato l’invito dell’Anpi di Ivrea a celebrare la festa della Liberazione con una esposizione on-line di alcune loro opere. (https://www.facebook.com/472943589751904/videos/3822709961141953/).

* Il testo, pubblicato sulla pagina facebook dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese, costituisce la presentazione della mostra a cui rimanda il link. Qui viene riproposto con un diverso titolo e con qualche aggiunta.

Primo Levi 1960

Primo Levi seduto alla scrivania mentre legge (1960)

Lelio Basso San Gimignano

Conferenza di Sergio Dalmasso su Lelio Basso, a San Gimignano

 

 

Lelio Basso San Gimignano

Sergio Dalmasso, storico e studioso del Movimento Operaio, con la presentazione del libro “Lelio Basso.

La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico” a San Gimignano per Sinistra&Culture ha ripercorso fasi decisive di storia della sinistra eretica dal dopoguerra ad oggi.

La lettura non conformista del marxismo di Basso, vicina a quella di Rosa Luxemburg, propone domande attualissime alla sinistra contemporanea.

Introduce il dibattito Ernesto Nieri, Presidente di Sinistra&Culture. 4 aprile 2019.

Video di Dante Pallecchi.

 

LELIO BASSOSergio Dalmasso

La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico

Prefazione di Piero Basso

«Quando Lelio Basso morì / contammo gli anni passati / della nostra giovinezza / e adulti ci inerpicammo / sugli impervi sentieri / del movimento operaio / alla resa dei conti con la storia» (Antonio Lombardi).

Sinossi

Non aveva ancora compiuto 25 anni, Lelio Basso, quando venne tratto in arresto e confinato all’isola di Ponza.

La sua “colpa”, nel 1928, era quella di essere un convinto antifascista e di comportarsi come tale.

Un’attitudine che, nel corso di un memorabile esame di filosofia morale sostenuto da Basso, costrinse il professore da cui era interrogato ad affermare:

«Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo lei ha dimostrato di conoscerla molto bene.

Qui il maestro è lei.

Vada, trenta e lode».

E se allo studioso Lelio Basso si dovrà, tra le tante cose, la diffusione del pensiero di Rosa Luxemburg in Italia, fu grazie alla sua visione della lotta partigiana se la Resistenza guadagnò un respiro di massa.

Ancora, per comprendere la complessità e l’importanza del personaggio, è a Lelio Basso, in quanto membro della Costituente, che si devono gli articoli 3 e 49 della Costituzione mentre, da strenuo difensore dei diritti umani quale fu, diede un contributo fondamentale alla fondazione di organismi quali il Tribunale Russell, chiamato a giudicare i crimini statunitensi in Vietnam.

Con partecipazione e competenza, Sergio Dalmasso rievoca la vita di Lelio Basso, dà voce alle sue lotte e entra nei particolari del suo lavoro politico, spiegando le rielaborazione bassiana del materialismo storico e restituendo il giusto merito a una delle figure più importanti della storia italiana contemporanea.

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