Quaderno CIPEC Numero 15

1945-1958. Il Caso Giolitti e la sinistra cuneese

di Sergio Dalmasso

Il testo contiene una postfazione del prof. Antonio Giolitti.

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Quaderno Numero 15. Il caso Giolitti e la sinistra cuneese

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Copertina Quaderno CIPEC Numero 15, il caso Giolitti e la sinistra cuneese

Quaderno Numero 15. Stampato presso il “Centro Stampa della Provincia di Cuneo”, agosto 1999, p. 160.

Ristampa del volume di Sergio Dalmasso pubblicato nel 1987 dalla Cooperativa libraria “La Torre” di Alba.

Indice parziale Quaderno Numero 15

Prefazione

Nota tecnica

Introduzione

Capitolo primo

La sinistra cuneese del dopoguerra

a) Il dopo resistenza e le ricostruzione

b) Comunisti e socialisti sino al referendum istituzionale

c) L’azionismo cuneese

d) Il fronte popolare e la sconfitta del 18 aprile

Capitolo secondo

Gli anni ‘50: pace, occupazione, antifascismo e lotta alla legge truffa

a) L’attentato a Togliatti, la scissione sindacale, i “dispersi in Russia” e i partigiani della pace

b) Lo stallo del 1951

c) La legge truffa

Nota tecnica Quaderno Numero 15

Il quaderno numero 15, Questo testo comprende gran parte di una tesi di laurea: “Il ‘56, Antonio Giolitti e la sinistra cuneese del dopoguerra” discussa all’Università di Genova (anno accademico 1984-’85).

Rispetto alla stesura della tesi sono stati apportati alcuni alleggerimenti, soprattutto nelle note e nelle citazioni, è stata ridotta la parte relativa alla problematica nazionale (a vantaggio, quindi di quella locale), sono state aggiunte le ultime pagine, relative al “ritorno” nel dibattito politico di Giolitti (scritti su “Repubblica” e sull’“Unità”, pubblicazione di “Lettere da vicino”).

Per evitare qualunque equivoco, occorre ricordare che questo non ha la presunzione di essere un saggio storico, è, per sua stessa natura, incompleto e presenta ovvi limiti di metodo.

Copre un vuoto oggettivo in quanto gli studi sulle formazioni politiche del cuneese si arrestavano agli anni fra il ‘46 e il ‘48 (le tesi citate di Aldo A. Mola, di Alessio Revelli, di Ferdy Jaloux) o trattavano con un intreccio fra l’approccio storico e quello sociologico un fatto specifico come le lotte contadine, tra il ‘56 e il ‘58 (il saggio di Claudio Biancani).

Assente quasi completamente il materiale negli stessi archivi dei partiti, ho fatto ricorso quasi esclusivamente a giornali locali e alle testimonianze.

Nonostante questo siamo (purtroppo?) molto lontani da un testo di storia locale o di storia sociale, rimanendo all’interno di una trattazione storico-politica, con tutti i pregi, ma anche i limiti che essa ha.

Spero che su alcuni temi (il filone radical-socialista, la sinistra socialista nei suoi rapporti con il PCI, il rapporto fra il sindacato e la fragile classe operaia locale, lo stesso rapporto fra la guerra di liberazione e la sua proiezione politica, il mutamento del tipo di militanza e di rapporto con il partito dopo il ‘56 …) e su alcune figure (molte di quelle nominate nelle pagine seguenti) siano possibili studi più specifici, più approfonditi e anche “metodologicamente” differenti.

Ringrazio per l’aiuto che mi è stato dato Alberto Cipellini, Franco Viara, Nuto Revelli, Eraldo Zonta, Luigi Borgna, Manlio Vineis, Piero Gonzo, Lino Toselli, Andrea Dotta, Claudio Biancani.

Un ringraziamento particolare all’Istituto storico per la resistenza di Cuneo e a Michele Calandri.

Maggio 1987

SERGIO DALMASSO

Introduzione Quaderno N 15

Quaderno numero 15. Il 1956 è, da tempo, considerato come l’anno più importante per tutta la sinistra, non solo italiana, del dopoguerra.

La denuncia dei crimini di Stalin, del “culto della personalità”, i fatti di Polonia e di Ungheria costringono il movimento operaio a rimettere in discussione i cardini su cui ha basato la propria politica per circa 20 anni; il frontismo e il legame con l’U.R.S.S. come centro del socialismo mondiale.

Il dibattito nelle forze politiche italiane è molto ampio e tocca livelli di intensità e di drammaticità sconosciuti in precedenza: se il Partito socialista accentua le proprie spinte autonomistiche, accelerando il cammino verso quelli che saranno poi la collaborazione a livello governativo con la D.C. e l’esperimento dei governi di centro sinistra, mantenendo, comunque, una fisionomia che lo rende unico nel panorama politico europeo, il Partito comunista subisce la crisi più grave del secondo dopoguerra.

Neppure l’accorta gestione togliattiana (centrata sulla proposta a livello internazionale del policentrismo e a livello nazionale della via italiana al socialismo) riesce ad evitare che il dibattito interno tocchi punte molto accese e segni la maggiore diaspora, soprattutto di intellettuali, che il partito abbia mai vissuto.

Nello spazio di pochi mesi che segue il 20º congresso del Partito comunista sovietico, i fatti d’Ungheria, l’ottavo congresso del P.C.I. e le polemiche che lo segnano, si ha l’uscita dal P.C.I. di Calvino, Muscetta, Cantinori, la sospensione di Ludovico Geymonat, lo scoppiare dei “casi” Reale, Onofri e Corbi, la nascita (e spesso l’esaurimento nel giro di pochi mesi), di riviste come «Città aperta», «Corrispondenza socialista», «Passato e presente», «Tempi moderni» che, pur tra mille limiti e incertezze, pongono temi e problemi, spesso non toccati dalla sinistra ufficiale e spesso anticipatori della tematica che sarà propria degli anni ‘60.

In questo clima, il “caso Giolitti” assume un indubbio peso divenendo, per molti aspetti, esemplare. Eletto nel collegio di Cuneo alla Costituente e nelle elezioni politiche del ‘48 e del ‘53, segretario del gruppo parlamentare comunista sino al 1953, molto stimato per unanime riconoscimento, dallo stesso Togliatti, Giolitti pone, a partire dall’autunno ‘56, le domande più nette e più radicali sul 20º congresso del P.C.U.S., sulla crisi delle democrazie popolari e soprattutto sulla strategia che il movimento operaio deve seguire in Italia, davanti alle modificazioni della struttura economica, all’impraticabilità di una ipotesi rivoluzionaria intesa in senso classico, ad una situazione apparentemente bloccata e immobile in una realtà nuova e ricca di potenzialità se la sinistra saprà superare i propri limiti e cercare nuove strade.

Il suo intervento all’ottavo congresso P.C.I. (dicembre 1956) lo pone, di fatto ai margini del partito, la pubblicazione del testo «Riforme e rivoluzione», a cui risponderà polemicamente il vicesegretario Luigi Longo, lo colloca al di fuori di esso.

La sua uscita viene formalizzata nel luglio 1957 e, dopo alcuni mesi, si ha la sua presenza come capolista, nelle liste socialiste per le elezioni politiche (maggio ‘58), che, anche a causa di questo fatto, in provincia di Cuneo vedono un grave tracollo comunista e un forte successo socialista.

La sua stessa storia politica lo colloca, oggettivamente, nella corrente autonomista del P.S.I. e quindi dopo l’esaurirsi delle speranze riformatrici del primo centro sinistra in quella lombardiana.

Le sue posizioni negli ultimi mesi, la sua non iscrizione dopo circa 30 anni al P.S.I., la sua polemica con la gestione craxiana, il suo guardare con attenzione al dibattito politico interno al P.C.I., appartengono alla cronaca e al dibattito politico odierno.

Come si vive nel ‘56 nella provincia di Cuneo? Come affronta la sua più grave crisi di una sinistra debole ed incerta, in una delle province più bianche d’Italia?

Una lettura attenta dei pochi giornali della sinistra cuneese dal 1945 alla fine degli anni ‘50, mostra, a parte la grossa e significativa esperienza azionistica, presto esaurita e confluita soprattutto nel filone socialista, l’esigenza di partiti molto deboli, costretti spesso a chiudersi in una logica difensiva, circondati da pregiudizi ed accuse infamanti, incapaci, per lungo tratto, di articolare sul territorio e nella situazione specifica le parole d’ordine e le linee politiche nazionali.

Non diverso è il discorso per il sindacato, limitato per anni ad alcune fabbriche (in particolare la Ferroviaria di Savigliano, la Burgo di Verzuolo, la Falci di Dronero ed alcune zone del Monregalese), nettamente minoritario e “circondato” in una provincia contadina, dove, a parte l’interessante esperienza del Partito dei contadini, limitato all’albese, è sempre stato indiscusso il predominio della “Bonomiana” e dove anche i più piccoli nuclei di fabbrica non hanno quasi mai espresso battaglie significative capaci di incidere sul territorio e di creare attorno a sé alleanze politiche e sociali.

Il Partito socialista si presenta come molto povero di quadri, con un ruolo secondario rispetto a comunisti e azionisti nella stessa lotta partigiana e soffre molto la scissione del gennaio 1947, in cui perde dirigenti affermati e molto popolari.

Solo la diaspora degli azionisti, confluiti in gran parte, nel suo seno, gli ridarà peso e forza sino al rovesciamento dei rapporti di forza con il P.C.I., avvenuto, come già detto, nel 1958 e alle dispute, proprio negli anni ‘50 e ‘60 fra sinistra ed autonomisti.

Il P.C.I. si presenta, al contrario, come formazione coesa e compatta, con quadro politico in parte proveniente dall’antifascismo del ventennio, in parte nato proprio nel corso della guerra partigiana.

La sua massima carenza pare quella di non sapere declinare la linea politica nazionale in campo locale. Raramente, passate le grandi battaglie per la Repubblica e per la Costituente, il partito riesce a rappresentare significativi movimenti di massa, a dare consistenza alle iniziative per il lavoro e per la pace.

È spesso costretto a difendersi da una sottile e insistente campagna sui misfatti di alcuni settori della resistenza, sui caduti e dispersi in U.R.S.S., autentico cavallo di battaglia della D.C. per lungo tempo, sulla non democrazia dei paesi dell’est, sulle persecuzioni alla religione (lo stereotipo del “comunista nemico dei preti” è presente, ancor oggi, nelle campagne cuneesi).

La stessa struttura di classe della provincia non favorisce certo il partito: ad una esigua classe operaia si contrappone una piccola proprietà contadina lontana da ogni ipotesi cooperativistica ed avversa ai “comunisti che tolgono le terre ai contadini”.

Lo stesso ceto medio è alieno da ogni ipotesi progressista, legato alla ideologia cattolica, alla certezza della immodificabilità della situazione, ad una visione del mondo che, mancando una cultura operaia alternativa, è quella della classe dominante, anche a causa dell’assenza delle forme, anche meno radicali della lotta di classe esistenti, invece, nelle province confinanti.

Una svolta nelle scelte del P.C.I. cuneese si ha al 4º congresso della federazione (1954). In esso viene messa sotto accusa la gestione “operaia” della federazione e viene proposta, da parte del nuovo gruppo dirigente, la politica di Rinascita, basata sul principio che solo una larga azione unitaria e l’appello a tutte le categorie sociali e a tutti i cittadini possono portare alla rinascita della provincia di Cuneo.

Per far uscire il P.C.I. dal suo isolamento occorre cercare più ampie alleanze politiche, trovando un rapporto con forze sociali produttive, primi fra tutti i piccoli proprietari contadini.

È proprio questa scelta a rimettere in moto una situazione che pareva bloccata: in varie zone del cuneese, in particolare nelle Langhe si apre una stagione di lotte contadine, caratterizzate da rivendicazioni locali e da alleanze con forze politiche molto eterogenee, sempre guidate da un P.C.I. che scopre nuove forme di lotta e accresce la propria presenza in zone tradizionalmente ostili.

Sono proprio i fatti internazionali del ‘56 a segnare la fine di una mobilitazione che pareva al suo apice. In particolare, dopo i fatti d’Ungheria, il fronte anticomunista pare ricompattarsi ed un’alleanza, anche parziale, con il P.C.I. pare impossibile, nonostante alcune significative affermazioni (abolizione del dazio sul vino…).

Il “caso Giolitti” diviene, quindi, emblematico anche per la provincia di Cuneo. Sono proprio le sue dimissioni dal P.C.I. e il suo passaggio, anche se non immediato, al P.S.I. a segnare la fine di una fase per la sinistra cuneese (il deputato D.C. Sarti arriverà a definire il P.C.I., dopo le elezioni del 1958, “corpo estraneo alla provincia”).

Uno studio sulla realtà cuneese del dopoguerra vede nel biennio ‘56-’58 un termine “ad quem” di non poca importanza, da analizzarsi per lo meno come è stato fatto per il periodo post-resistenziale.

Gli strumenti utilizzati per questo studio sono, innanzi tutto, i periodici delle varie formazioni politiche cuneesi fra il 1945 e il 1958: «Lotte Nuove» organo del P.S.I. dal ‘45 al al ‘47 e poi dal 1956, «Il lavoratore cuneese» organo del P.C.I. dal ‘45 al ‘49, «La Voce» settimanale social-comunista dal ‘51 e comunista dal ‘56, «La Vedetta» organo della D.C., il «Subalpino» settimanale del P.L.I., «La Guida» settimanale della diocesi cuneese, «La Sentinella delle Alpi» periodico laico dal 1956.

Sono state consultate, oltre ad alcuni quotidiani nazionali, numerose riviste:

«Rinascita» mensile del P.C.I., «Mondo operaio» (annate 55-58) per il suo sforzo di rinnovamento profondo rivolto non solo al P.S.I. ma anche alla sinistra intera, le già citate «Passato e presente», «Tempi moderni», «Corrispondenza socialista».

Si sono tenuti presenti numerosi studi sulla politica del P.C.I., del P.S.I. e del Partito d’Azione. Ho consultato le non molte tesi di laurea sul periodo preso in esame, in particolare sull’immediato dopoguerra, sul P. d’A. Cuneese, e sul partito e sul movimento contadino.

Ho ovviamente tenuto presenti gli scritti di Giolitti, prima a livello giornalistico, anche localmente, poi i due testi «Riforme e rivoluzione» che segna, come già detto, il suo distacco dal P.C.I. e «Un socialismo possibile» che vede, a distanza di dieci anni, il maturare del suo pensiero, anche alla luce dell’esperienza dei primi anni del centro-sinistra.

Alcuni piccoli spunto ho tratto dalle parti introduttive all’antologia «Il comunismo in Europa» (1960) in cui Giolitti polemizza con la tradizione terzinternazionalista, con le deformazioni del pensiero socialista, riproponendo una versione più avanzata di una via nazionale riformista, priva delle tante doppiezze che accompagnano la politica del P.C.I.

Come sempre in studi di questo genere, più nella lettura di giornali o di libri, è stato fondamentale discutere i fatti, ormai lontani nel tempo, con i diretti protagonisti.

E questa fonte continua ad essere forse la meno esatta e precisa, ma certamente la più ricca e produttiva.

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Quaderno Numero 15. Il caso Giolitti e la sinistra cuneese