Addio Lidia Menapace

di Sergio Dalmasso

Ho incontrato, per la prima volta Lidia Menapace a Roma, nel luglio 1970, ad una delle prime assemblee nazionali del Manifesto.

Eravamo partiti da Genova, viaggiando di notte (le cuccette erano un lusso impossibile) in treno, Giacomo Casarino ed io, arrivando a Roma, morti di sonno, in una giornata caldissima di luglio.

Morta Lidia Menapace 7 dicembre 2020, Addio Lidia Menapace senatrice di Rifondazione ComunistaCi era stata consegnata la prima stesura delle “Tesi sul comunismo”, in una assemblea che si sarebbe dovuta svolgere a piazza del Grillo, ma data la partecipazione, si svolse a Montesacro.

Lidia era la più simpatica, la più disponibile fra i/le dirigenti che, a noi ventenni, sembravano di altra età, generazione, formazione e incutevano rispetto (Natoli, Rossanda…).

Quando si telefonava a Roma per chiedere che qualcun* partecipasse a dibattiti, incontri… arrivava sempre Lidia, puntualissima, precisissima.

Decine di riunioni della commissione scuola (ricordate le critiche ai “decreti Malfatti”?, poi il referendum per difendere il divorzio.

Ancora lei, dappertutto.

Ai temi usuali, il Manifesto aggiungeva tematiche insolite e originali, riprendendo riflessione dell’UDI sulla famiglia, il ruolo della donna; Lidia, per la sua formazione cattolica e democristiana era anche tramite con comunità di base, settori allora attivissimi su questo e altri temi.

Rimase stupita quando ad Alba (Cuneo), la sala prenotata si dimostrò troppo piccola per la partecipazione enorme e fummo messi in una palestra. Lo racconto sul “manifesto”.

Poi l’ennesima scissione, DP e PdUP, il suo ruolo di consigliera regionale nel Lazio, i suoi articoli e libri, le migliaia di assemblee, incontri su scuola, pace/guerra, il no al servizio militare per le donne, l’originalità e centralità della tematica di genere che spesso, a sinistra, veniva ridotta a servizi sociali, maternità, asili…

Nei primi anni di questo secolo, l’avvicinamento e poi l’iscrizione a Rifondazione. Incontri dappertutto, pur in una situazione difficilissima, partecipazione a convegni, direttorA (non voleva il termine direttrice che le ricordava le scuole elementari) della prima “Su la testa,” rivista mensile, consigliera provinciale (dopo due consigli regionali e il Senato!) a Novara, città in cui era nata.

A più di 90 anni era sempre in moto, in treno, dalla sua Bolzano nell’Italia intera per collettivi di donne, associazioni pacifiste, ambientaliste, per l’ANPI di cui era dirigente nazionale: “Sono ex insegnante, ex senatrice, ma sempre partigiana”.

Tre aneddoti:

– 2004. Abbiamo un incontro pubblico con lei, a Cuneo. Leggo su “Liberazione” della morte del marito. Le scrivo dicendole che possiamo annullarlo, che non si faccia obblighi con noi. Risposta: “Arriverò. Alla mia età, se ci si ferma, non si riparte più”.

– 2010: per le elezioni regionali piemontesi, nostra assemblea a Bra, città sede di uno dei più attivi e capaci circoli del vecchio PdUP. Era convinta che tant* sarebbero venuti a rivederla, salutarla, dopo una militanza comune, di anni. Neppure un*. Il deserto. Era rimasta molto addolorata e colpita. Non uso aggettivi e tristi considerazioni antropologiche sul settarismo di “sinistra”.

– 2016. per il compleanno di Rosa Luxemburg, a Cuneo, viene fondato un circolo Arci che prende il suo nome. Mi viene chiesta una relazione su vita ed opere. Al dibattito partecipa anche Lidia (per me un onore).

Al termine mi dice di mettere per scritto quanto ho detto. Lei avrebbe aggiunto un suo testo e ne sarebbe nato un libro, a quattro mani, per l’editore Manni. Altro onore per me. Scrivo, diligentemente il mio compitino. Il suo testo non arriverà mai, nonostante, lettere, e-mail, telefonate…

Dopo due anni e mezzo alla “critica roditrice del computer”, “Una donna chiamata rivoluzione” uscirà presso la Redstar press che ancora ringrazio.

Mesi fa se ne è andata Rossana Rossanda. Prima di lei Natoli, Pintor, Magri, vinto anche dalla sconfitta politica e da un mondo in cui non si riconosceva più. È il nostro passato che ci lascia, in una realtà sempre più drammatica.

Lidia Menapace negli anni Sessanta

Essere stato amico di Lidia e avere condiviso tratti di percorso con lei è stato per me (e non solo) molto bello ed importante.

Con affetto.

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Ibsen, Mimesis edizioni

Ibsen, Mimesis edizioni, dipinto La pubertà di Edvard Munch

Intervista a Franco Di Giorgi

di Domenico Capano

FRANCO DI GIORGI, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’esser sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen (Mimesis, 2020, 316 pagg.).

Professor Di Giorgi, dopo il suo corposo lavoro su Giobbe (Giobbe e gli altri, del 2016), dopo il saggio in cui ha avuto modo di riflettere sul vangelo apocrifo di Tommaso (Il Luogo della Vita, del 2018) e quello su San Paolo, Hodòs eirènes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (del 2019), ora è uscito per Mimesis questo nuovo saggio su Ibsen, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Ce ne vuole parlare? A cosa si deve il titolo?

Copertina libro su Ibsen, Mimesis edizioni di Franco Di Giorgi Il titolo di questo mio saggio – Il dramma dell’esistenza mancata – trae spunto in generale dai drammi di Ibsen e in particolare dal titolo di un’opera di Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, del 1956.

Nel 1949 però Binswanger aveva già pubblicato un altro scritto, sempre sull’autore norvegese: Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte.

Binswanger è uno psichiatra svizzero che ha sviluppato un’antropoanalisi ispirandosi all’analitica esistenziale svolta da Heidegger in Essere e tempo, nel 1927.

La tesi di questo studioso è che forme di esistenza mancata come la stramberia, la fissazione e il manierismo non si debbono necessariamente ridurre solo a semplici patologie, ma si possono anche considerare come delle possibilità esistenziali, dei modi di vivere.

Egli ravvisa infatti la fissazione in uno dei personaggi di Ibsen più rappresentativi, più noti e più rappresentati, Il costruttore Solness (1892), uno dei drammi della maturità ibseniana, scritti in patria, in Norvegia, dopo aver vissuto e lavorato per molti anni, per 27 anni, all’estero, in Italia (Roma) e in Germania (Dresda e Monaco).

In che cosa consiste esattamente l’esistenza mancata?

L’esistenza mancata è una categoria esistenziale che, secondo una certa gradualità, si attaglia a molti dei personaggi ibseniani, il cui travaglio, la cui condizione costituisce la sostanza della drammi di Ibsen.

L’esistenza mancata viene vissuta come imperfezione, errore ed erranza, come vita deviata, sbagliata, non colta appieno, non vissuta in modo autentico.

C’è un termine paolino che la definisce bene, l’hamartía, il peccato.

Per poter comprendere la condizione esistenziale travagliata di questi personaggi – nei quali si riflette anche la nostra attuale condizione – occorre distinguere il concetto di esistenza in ex-sistenza e in vivere.

Nella prima vi è la consapevolezza dell’essere nel mondo, nel secondo no.

Il dramma dell’esistenza mancata prorompe nei personaggi ibseniani quando prendono coscienza della loro condizione.

Questa consapevolezza è presente solo in alcuni di essi:

ad esempio in Skule ne I pretendenti al trono (1864), in Bernick ne I pilastri della società (1877), nella stessa Nora de La casa di una bambola (1879);

ma la maggioranza di essi vive e si lascia vivere senza preoccuparsi della propria vita, anzi cerca in tutti i modi di non preoccuparsene, come ad esempio Hjalmar nell’Anitra selvatica (1886).

I più coscienti sono quelli che vogliono instaurare un rapporto veritativo con sé stessi; gli altri, pur di vivere o di sopravvivere, cercano in tutti i modi, come già osservavano Pascal e Kierkegaard, di dimenticarsi del sé stessi, cioè della propria vita.

Occorre distinguere infatti anche tra propria vita, che è quella autentica del Sé stesso; vita propria, che è la vita in sé, intesa come processo; e vita impropria, che è quella vissuta falsamente e in modo inautentico dai più, e quindi una non-vita, una vita falsa.

Ma occorre distinguere altresì pure all’interno del medesimo in-dividuo, nel quale sono compresenti un Sé stesso, perlopiù relegato a utopia se non a atopia, e un Io, un’istanza che pur di sopravvivere, si rende disponibile a obliare il vero Sé stesso e ad assumere qualità e ruoli che non gli sono affatto propri.

Da qui, da questa duplicità interiore vissuta nei consapevoli come lacerazione, il motivo per cui nel saggio il termine in-dividuo compare sempre con il trattino in mezzo.

In molti di questi Io, ad esempio in Hjalmar, l’oblio del Sé stesso, diviene addirittura una seconda natura, in alcuni altri, invece, nei pochi, ad esempio in Skule, crea profondo disagio.

Una visione certamente pessimistica quella che emerge dall’opera di Ibsen. Ma c’è in questo drammaturgo una via per redimersi da un siffatto peccato, dall’hamartía, dall’esistenza mancata?

In Ibsen non c’è nessuna redenzione.

C’è tuttavia una possibilità di risveglio al Sé stesso.

Ma non dipende mai dalla volontà del singolo in-dividuo.

Il risveglio è sempre il frutto del mero caso. Immerso nell’oblio, l’Io da solo non sarà mai in grado di ridestare il vero Sé stesso. Per giungere a questo risveglio è sempre necessario, per Ibsen come per Socrate,

la semplice e casuale presenza di un Tu, il quale per ottenere quel risveglio, deve essere necessariamente pathico, deve cioè suscitare un pathos, un dolore nella coscienza addormentata dell’Io.

Questo pathos, questo dolore, è l’effetto dell’in-essenzializzazione che il Tu pathico genera nell’Io,

il quale raggiunge la sua essenzializzazione, e quindi il possibile recupero del Sé stesso perduto, solo mediante la sua inessenzializzazione, cioè solo attraverso la spoliazione delle sue innumerevoli maschere.

Ma ammesso che sia superabile, questo disagio esistenziale prevede solo la figura dell’Io e del Tu? Non c’entra per nulla la società in cui essi vivono?

È importante sottolineare che per Ibsen questo doloroso travaglio esistenziale, causato dalla lacerazione intima Io-Sé stesso, non riguarda solo l’individuo, la sfera individuale, riguarda anche la società, la sfera sociale, e quindi anche gli altri.

La lacerazione individuale riflette quella sociale e viceversa.

Se la società è malata è perché l’individuo è malato. E viceversa.

È questa interrelazione tabifica che caratterizza i drammi di Ibsen, è un’aria mefitica che vi si respira.

Nella società la dialettica Io-Sé stesso corrisponde non solo e non tanto alla classica lotta di classe borghesia-proletariato, ma corrisponde soprattutto a quella contraddizione ancora più classica, quella esiodea, tra il bene e il benessere, a causa della quale il bene viene sistematicamente sacrificato per il benessere.

Si vedano a tal proposito le ragioni del dottor Stockmann ne Il nemico del popolo, del 1882.

Non solo. Per garantire questo suo benessere la società deve creare la lacerazione nell’in-dividuo, affinché esso rimanga sempre disponibile per le esigenze di questa società unidimensionale,

anche se ciò implica per ogni singolo il dover rinunciare al Sé stesso, il tradimento della propria vocazione, la repressione della propria predisposizione.

Da un lato, dunque, la società non può non falsificare la coscienza dell’in-dividuo, favorendone cin tal modo l’alienazione, l’estraneazione e la contraffazione del Sé stesso con l’Io;

dall’altro lato, tuttavia, l’individuo, pur di non avvertire quel dolore, quel pathos che ogni vero risveglio comporta, finisce con l’assuefarsi a quel sistema sociale, cercando anzi di fare in modo che nulla cambi rispetto a quell’ordine delle cose.

Foto del Libro di Franco Di Giorgi su Ibsen, Mimesis edizioni

Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen, Franco Di Giorgi, Mimesis ed., 2020

Disponibile anche su Amazon

Torino, 3 dicembre 2020

Giornata internazionale CONTRO la violenza sulle donne

25 novembre, 2020.

L’altra storia di Lilìth di Franco Di Giorgi

L’altra storia di Lilìth, commento al video

No violenza

No violenza. Lo stupro, opera di Caterina D’Amico, scultura in gesso dipinta con colori acrilici, misure reali, anno 1994).

Il sesso non ricambiato è violenza e reato.

L’opera di Caterina D’Amico è a grandezza naturale e intende denunciare la sconvolgente esperienza dello stupro. Ricoperta di frammenti di specchio, la veste ribaltata sul volto della donna evidenzia la non partecipazione all’atto sessuale.

Secondo alcune testimonianze, il corpo violentato della donna rimane come un involucro privo di forza e di volontà di vivere, tale per cui l’essere umano si sente sporco, dentro.

Assaliti dalla curiosità, durante le esposizioni alcuni uomini si avvicinavano chiedendo: “Chi è quel purcun che ha fatto questa scultura?” La risposta che si poteva dare era: “Il purcun è colui che anche davanti a questo corpo violentato e abbandonato vede solo sesso, solo un’ulteriore preda da usare come vittima”.

Durante la fruizione ravvicinata dell’opera, facendolo rispecchiare in quei cocci di vetro spezzato, l’artista cerca di mettere in grado lo spettatore di ribaltare il senso della vergogna su un potenziale stupratore, su colui che ha potuto o che, date certe condizioni, potrebbe osare quella violenza.

Sull’opera si veda il video su YouTube “Sguardo oltre la pelle” (2005) di Lino Budano.

No violenza, Lo stupro, opera di Caterina D'Amico

Video Sguardo oltre la pelle di Lino Budano:

No violenza

L’altra storia di Lilìth

di Franco Di Giorgi

 Sin dall’inizio nel giardino apparvero in due. Le prime parole che lui le rivolse quando se la vide dinanzi furono queste, ispirate da un poeta dell’amore eterno: «Mi piaci quando taci perché sei come assente. Distante e dolorosa come se fossi morta». Dentro di sé, infatti, cercava il silenzio primigenio, desiderava la solitudine originaria, l’integrità fisica, il primato e il privilegio dell’unicità, quella beatitudine di cui aveva goduto ancor prima di quell’inizio e che Dio purtroppo gli aveva negato pensando che egli, Adam, si annoiasse e che non stesse bene che fosse solo. Lui, il solo a non essere stato generato da una donna, lui che non conosceva madre, ora se ne trovava invece una davanti, molto simile a sé, Lilìth, la madre di tutte le altre madri, la quale per di più pretendeva di essere la madre anche di lui, di Adam, perché ogni uomo, e a maggior ragione anche il primo, è destinato a una donna che ricorda la propria madre. Con la stessa pasta, con la medesima ’adamàh, Dio aveva creato due esseri, di cui uno, l’essere femminile, riteneva di essere la madre dell’essere maschile. Era lui, invece, che voleva essere la madre anche di lei, della donna. Non ci mise molto a disfarsi di Lilìth e addormentandosi si dispose in modo che Dio gliene formasse un’altra secondo l’immagine che avrebbe visto in sogno, però utilizzando questa volta la propria ’adamàh, la sua stessa materia maschile. Da lui, da Adam, dall’ish nacque così, subito dopo il primo femminicidio, lei, Eva, l’ishàh.

L’occhio pietoso dell’arte, però, ritorna sul corpo abbandonato di Lilìth, procedendo a una specie di silente “exoscopia”, a un esame dettagliato dell’epidermide, della pelle, sotto la pelle, oltre la pelle, a un’amorosa perlustrazione purificante della carne violentata, mentre il rumore del mondo scorre via veloce come il tempo e qualsiasi parola diviene luogo comune, betîse, chiacchiera, sfondo sonoro neutro che alla lunga neutralizza anche quel corpo abusato e persino la stessa violenza, ormai accettata da quasi tutti gli uomini come qualcosa di inevitabile, come una dannazione. Sì, una maledizione, un destino ineluttabile come la morte, incancellabile come una stimmate, insanabile come la gelosia, quella «piaga biforcuta», quella specie di peste che ci viene inflitta nello stesso istante in cui nasciamo, ebbe a dire nel frattempo un altro poeta eterno. Ma ogni gesto, soprattutto quello suscitato dal dubbio, quello arrogante e aggressivo che non vuole e non riesce a riconoscere l’assoluta indipendenza dell’altro da sé, della donna dei suoi sogni, è il prodotto di una ferinità che la cultura umana, specie quando si rende dogmatica, ha più volte suscitato sperando di rimuoverla. La quotidiana violenza sul corpo femminile, sull’altro genere umano, ha quindi la sua spiegazione nel nostro lontano passato, sia nella preistoria immaginata che nella storia vissuta, specialmente in quella riportata nei testi sacri, come pure in quelli non sacri ma che da quelli sacri hanno tratto ispirazione.

La comunicazione del misfatto, poi, quanto più sembra essere preoccupata, tanto più diventa nefandezza, favorendo e accelerando in tal modo la liquefazione e il definitivo oblio del corpo offeso, sul quale, naturalmente, una volta erasa l’immagine umana, l’evento brutale si traduce in affare commerciale soggetto alla legge del mercato, da cui, com’è noto, dipende la saldezza dei sistemi economici e delle stesse nazioni.

Non resta allora che l’attento esame delle lividure esterne e interne, sopra, sotto e oltre la pelle, per cercare di andare oltre il dolore; non rimane che la comprensiva osservazione di quella carne lacerata, di quelle ferite immedicabili, cercando, attraverso quei deboli riflessi di luce che nella notte dei tempi ancora rivelano il corpo ribelle di Lilìth, di ricavare segni con cui formare pazientemente parole, parole nuove per un linguaggio nuovo, grazie al quale gli uomini, i discendenti di Adam, possano finalmente apprendere il modo per superare la loro dannata violenza innata, che è il vero peccato originale.

Questo testo vuole essere una libera interpretazione del video (Sguardo sotto la pelle: https://www.youtube.com/watch?v=mcpDyo9XG4E) che l’artista Lino Budano ha realizzato nel 2005 in collaborazione con Caterina D’Amico e che quest’anno hanno voluto riproporre in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Dopo escursioni nel campo della pittura e della scultura, da circa 20 anni Lino Budano si occupa di “ricerca visiva”, dedicandosi al lavoro dell’immagine come contaminazione di generi e di linguaggi diversi.

Il mondo della pictoscultura di Caterina D’Amico sottolinea «il senso di straniamento e disagio dei personaggi che mostrano di subire, senza speranza, un mondo che li opprime, mortificando la libertà e soffocando l’unicità e la personalità individuale, in vista di una ampia, omogenea realtà massificata e senza anima» (Enzo De Paoli).

Ivrea, 26 novembre 2020

Franco Di Giorgi

 

25 novembre 2020

L’attualità del pensiero di Gramsci

 Intervengono Sergio Dalmasso e Giordano Bruschi.

Moderatrice Cecilia Balbi.

Intervento iniziale di Pino Cosentino.

Locandina Attualità del pensiero di Gramsci

L’Attualità del pensiero di Gramsci, temi del primo incontro:

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso

“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi

Video su L’attualità del pensiero di Gramsci:

Ciclo di incontri promosso da APS Consorzio Zenzero, Attac Genova, ANPI Sezione Genova S. Fruttuoso, Goodmorning Genova, Il Ce.Sto.

Primo incontro, martedì 20 ottobre 2020.

In diretta dal circolo ARCI Zenzero di Genova.

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso storico del movimento operaio.
“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi Partigiano e insignito della medaglia il Grifo d’oro massima onorificenza della città di Genova

Introduce Cecilia Balbi del Circolo Zenzero.

Tecnico audio Stefano Gualtieri

Tecnico video Dimitri Colombo

Conferenza trasmessa in diretta streaming il 20 ottobre 2020 su Facebook da Goodmorning Genova.

“Il consiglio comunale di Genova, minoranza e maggioranza – esclusi i consiglieri di Fratelli D’Italia che hanno deciso di votare contro – ha detto sì alla proposta di assegnare il Grifo d’Oro, massima onorificenza cittadina, a Giordano Bruschi.

Il partigiano “Giotto”, che presto compirà 95 anni, è conosciuto come memoria storica della resistenza e del novecento genovese, ma anche per la sua esperienza politica, sempre a sinistra, nel Pci, per cui fu consigliere comunale, e poi come scrittore, ambientalista e come anima dei comitati della Val Bisagno.

Sull’assegnazione del Grifo a Bruschi il plauso della Camera del Lavoro di Genova e del segretario Igor Magni.

Magni: “Grande soddisfazione per questo importante riconoscimento a Bruschi che con il suo impegno di militanza, esercitato sempre, anche nei momenti più difficili, rappresenta un esempio per tutti noi.

Un abbraccio fraterno da tutte e tutti noi della Cgil di Genova”. ”

Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Ciao compagni

La ricchezza delle nostri grandi storie

 

Due giorni fa ci ha lasciati Giuseppe PRESTIPINO, 98 anni, filosofo e militante politico.

Lo avevo conosciuto nell’ultima fase di DP e rivisto in Rifondazione.

Persona profonda, umile, disponibile alla discussione e all’ascolto.

Ieri notte, se ne è andata Rossana ROSSANDA, 96 anni.

Il Manifesto è stata la mia prima formazione politica.

Ricordo la prima riunione, a Genova, in via S. Lorenzo, con Manlio Calegari, Giacomo Casarino, Franco Carlini, Fernanda La Camera, Arcadio Nacini…, le prime riunioni nazionali, a Roma (luglio ’70), a Firenze (settembre ’70).

L’emozione nel vedere Pintor, Natoli, Caprara, Magri, Castellina, Rossanda, tant* giovani.

Le analisi di Rossanda erano profonde e documentate, anche se la fase la portava ad un eccessivo ottimismo (Italia e Francia) e ad un giudizio acritico sulla rivoluzione culturale cinese.

L’ho seguita in tutti questi anni: un comunismo non dogmatico, capace di comprendere il femminismo, l’ecologia politica, le trasformazioni con una lettura marxista assente nei tanti ortodossi che avevano bollato lei e il Manifesto con accuse infamanti, purtroppo veicolate da tant* militanti in buona fede.

Ricordate il “Chi vi paga?”.

“La ragazza del secolo scorso” è una biografia eccezionale, almeno nella prima parte anche capolavoro letterario.

Ciao Compagni. La ragazza del secolo scorso Rossana Rossanda

L’ho incontrata molte volte, ma una sola volta ho parlato a lungo con lei.

Dovevo scrivere un testo sulle origini del Manifesto (rivista, gruppo politico) e cercavo di comprendere le radici della sinistra “ingraiana” (11° congresso).

Lei accentuava il valore della alternativa della sinistra ingraiana, della battaglia per “linee interne”.

Io, forse schematizzando, insistevo sui limiti di questa.

Aveva chiuso in modo un po’ brusco dicendo: “Se non scriveremo noi di questi temi, non lo farà nessuno“.

In una realtà politico-culturale fatta di slogans, di assenza di analisi (strutturali e non), era capace, ogni volta, di richiamarci a principi basilari, ad una analisi marxista della realtà, oggi considerata inutile ed abbandonata anche da chi si considerava “ortodosso”.

La sua morte ci richiama alla mente oltre mezzo secolo del nostro impegno, delle nostre organizzazioni, delle nostre sconfitte frontali.

E’ triste pensare a chi se ne va per sempre, ma anche al fatto che la politica, di oggi e non solo, sia opera di nani, privi di formazione e che la ricchezza delle grandi storie che abbiamo alle spalle stia scomparendo.

 

Sergio Dalmasso
Genova, 20 settembre 2020

Quaderno 66

Il Quaderno numero 66 contiene il libro

A SINISTRA DI INTERNET di Giovanni Ferretti

Download “Quaderno CIPEC 66 (Libro a sinistra di Internet di Gianni Ferretti)” Quaderno-CIPEC-Numero-66.pdf – Scaricato 30917 volte – 3,84 MB

In anticipo, largo, sulla stampa cartacea – a cura del Centro Stampa della Provincia di Cuneo – si rende disponibile il quaderno cipec 66.

Contiente anche alcune recensioni del libro di Sergio Dalmasso su Lucio Libertini e un saggio di Sergio Dalmasso su Rodolfo Morandi.

Quaderno CIPEC Numero 66

Premessa, a sinistra di internet

Queste righe, lungi dal volersi ritenere complete ed esaustive, propongono un compendio degli studi relativi alle conseguenze provocate dall’impatto del digitale sulle nostre vite: scorrono sulle modifiche in atto in alcuni assetti psicologici, antropologici e sociali, e affrontano il rapporto tra digitale, economia e capitalismo del controllo, mettendo in risalto il ruolo del digitale nella creazione del consumo, del consenso e del controllo sociale.

Il testo, anche se di taglio per lo più sociologico, ha la presunzione di avanzare alcune analisi politiche; queste prendono spunto dal lavoro di diversi studiosi, alcuni dei quali potrebbero non gradire l’accostamento alla sinistra, presupposto nel titolo, soprattutto se accostata ad aggettivi quali radicale o anticapitalista 1: pur avendo provato ad essere accurato nelle citazioni, la loro selezione e il filo logico utilizzato per collegarle tra loro è ovviamente di esclusiva mia responsabilità.

Gap generazionale

Vale la pena puntualizzare che le analisi che vengono riportate e le statistiche sulle quali si basano, sono fortemente influenzate da quello che potremmo definire gap generazionale: è chiaro che l’impatto dei media digitali, soprattutto sul nostro modo di interpretare il rapporto con il nostro prossimo, è molto diverso se riferito alle generazioni Y (nati dopo il 1981, cresciuti con il web, creato nel 1991) e Z (i digital native, nati dopo 1995) o, viceversa, se osservato nelle generazioni maturate nel secolo ventesimo.

I ragazzi non leggono i giornali cartacei

Un esempio: i ragazzi di oggi difficilmente comprano giornali; quelli più sensibili sono comunque orientati a consultare giornali on-line o, più spesso, aggregatori di notizie tipo Google News.

Questo ovviamente non vale per persone che hanno più di 50-60 anni: troveremo anche tra di loro fruitori delle news on-line ma statisticamente il loro numero sarà molto meno rilevante.

Più in generale, possiamo cinicamente dire che ogni persona che muore è un fruitore di tecnologia broadcast (TV tradizionale, radio…), mentre ogni persona che nasce sarà fruitore di tecnologie di nuova generazione (streaming, podcasting, social o altro che sia o che sarà).

Nota

1 Anche se c’è da chiedersi che cosa sia una sinistra non anticapitalista.

Giovanni Ferretti

Nella foto seguente la figlia di CHE GUEVARA Aleida con Giovanni Ferretti:

Sferini su Lucio Libertini

Download articol di Marco Sferini su Libertini

Lucio Libertini: “Una cosa è rifondarsi, altra è abiurare”

Sferini foto Lucio Libertini

su La sinistra quotidiana

 

Sferini su Lucio Libertini – 27 anni fa mi trovavo in Trentino, in vacanza.

Dal televisore dell’albergo un mesto Tg2 diede la notizia in poche parole, mostrando questa foto di Lucio Libertini.

Era morto un socialista vero che non si era mai mosso più di tanto dalla posizione in cui aveva fatto crescere e maturare i suoi ideali.

“Sono i partiti che sono cambiati attorno a me”.

Ed infatti Lucio si riferiva alla mutazione del PSI, del PCI in PDS e alla sua personale scelta di rimanere invece convintamente comunista.

Lui riconosceva – scrisse – il diritto a Napolitano di dirsi socialista riformista.

Chiedeva che gli venisse riconosciuto altrettanto il diritto di dirsi ed essere nell’Italia del 1991 ancora, liberamente comunista.

Libero dalle catene in cui il comunismo era stato imprigionato dall’esperienza dei paesi dell’Est Europa, dell’Urss stessa.

Libero di rifondare pratica e pensiero dei comunisti nel Paese che aveva conosciuto per primo il fascismo e che i comunisti avevano contribuito in larga parte a sconfiggere con la Resistenza.

Grazie anche a lui, il Partito della Rifondazione Comunista può oggi rivendicare una sua vena libertaria e una ispirazione già allora antistalinista, costretta indubbiamente a convivere con posizioni molto contrastanti tra loro.

La dialettica del resto era e rimane non solo il motore della storia e dell’evoluzione umana, ma anche la dinamica con cui le tesi diventano sintesi.

Lucio scomparve mentre stava lavorando proprio alle tesi del congresso nazionale del Partito.

Nel settembre di quell’anno la consueta grande manifestazione a Roma dove convergevano oltre 300.000 compagne e compagni, ricordo Lucio in tanti interventi.

Mi mancò molto in quell’agosto, che ricordo con piacere per altri motivi, la figura di Lucio Libertini.

Come mi manca ancora oggi.

Perché era un compagno onesto moralmente e intellettualmente parlando.

Andai a cercare “Liberazione” a Trento, perché a Faedo non si trovava, la lessi freneticamente e la custodii nella copia della settimana precedente che invece avevo comperato a Savona.

Ogni tanto la riprendo in mano, così come alcuni scritti che reputo importanti: tra gli altri spiccano le “Sette tesi sul controllo operaio”.

Se posso consigliare alcune letture su Libertini, direi che sono un buonissima ricostruzione del suo pensiero quello uscito nell’autunno del 1993, edito da “Liberazione” stessa (“Lucio Libertini, 50 anni nella storia della sinistra”) oramai credo introvabile se non presso qualche circolo o federazione provinciale del PRC, e quello scritto dal caro amico e compagno Sergio Dalmasso, “Lucio Libertini, lungo viaggio nella sinistra italiana”, che potete acquistare anche su Amazon.

Libro su Libertini di Dalmasso

MARCO SFERINI

7 agosto 2020

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Perché un movimento per la rifondazione comunista

Per comprendere la lotta che Libertini visse, come tante decine di migliaia di compagne e di compagni vissero, in quella transizione storica tra PCI e Partito Democratico della Sinistra, dopo il crollo del Socialismo reale sovietico e dei suoi paesi satelliti, riportiamo di seguito un intervento scritto per “l’Unità”, il 14 dicembre 1990:

Nei congressi sentiamo ripetere frequentemente un ritornello banale: il nome non conta, andiamo al di là del sì e del no.

E, a ben vedere, una affermazione inconsistente o pretestuosa, perché ciò che è in discussione non è un nome, ma, con un nome, una identità culturale e politica, e ogni contenuto, ogni programma, ha la sua radice in una identità.

Non a caso, o per capriccio, da anni è in corso una massiccia campagna dei grandi mezzi di informazione, diretta ad indurci ad abbandonare il nome comunista e la nostra identità di comunisti italiani, perché così si tagliano gli ancoraggi ideali e si diviene più facilmente preda di una deriva verso destra.

In realtà la questione di fondo che è in discussione e che investe l’intera sinistra europea (ma, ovviamente, in modo più diretto il Pci) e sulla quale occorre pronunziarsi con nettezza, riguarda un interrogativo centrale: se la vicenda di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni la vittoria definitiva del capitalismo, che diviene un limite insuperabile della storia umana, seppellendo la questione del socialismo; o se invece la tragica degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che comunque ha inciso sulla storia del mondo, e le nuove gigantesche contraddizioni del capitalismo, a scala planetaria, ripropongano in termini nuovi la questione del socialismo e dell’orizzonte ideale, assai più lontano, del comunismo.

Molti di noi hanno rifiutato da tempo (chi scrive da sempre) di definire socialisti e comunisti quei regimi pur se ne riconoscevamo alcune storiche realizzazioni; ed è singolare che essendo stato per questo definito nel passato un revisionista e quasi un traditore, ora mi si voglia fare apparire un «conservatore» stalinista perché rifiuto di seppellire il socialismo sotto le macerie dell’Est.

Ecco, dunque, la questione.

Una questione che la proposta di Occhetto scioglie in una direzione ben precisa, perché da essa è assente ogni riferimento al comunismo ed al socialismo: perché la suffragano confusi discorsi su di una prospettiva che sarebbe «al di là del socialismo»; perché la identificano le dichiarazioni esplicitamente anticomuniste e antisocialiste di numerosi esponenti della cosiddetta sinistra sommersa, pronti ad essere cooptati nel gruppo dirigente del nuovo partito; perché il modello organizzativo che si propone ha caratteri sin troppo significativi, di ispirazione democratico-radicale.

Non a caso essa ha suscitato l’opposizione di Bassolino, che si è accorto, sia pur tardi, dei contenuti moderati dell’operazione, e la riserva, destinata a diventare dissenso esplicito, dell’area socialista-riformista, che da solco del movimento socialista europeo non intende uscire.

Tutto ciò – la perdita della identità e del riferimento al socialismo – spiega il processo di disfacimento che la «svolta» ha indotto sul piano organizzativo ed elettorale.

Una crisi ci sarebbe comunque stata in ragione della vicenda storica che attraversiamo, ed una rifondazione era comunque necessaria, ma la «svolta», per i suoi contenuti, trasforma la crisi in disfatta.

Proprio perché abolire una identità sostituendola con una fuga nel vuoto, mette in causa gli ideali che ci hanno fatto stare e lottare insieme, fuggendo dalla questione dei contenuti del socialismo, invece di affrontarla.

Ecco, dunque, perché considero con interesse la posizione, sia pure ancora ambigua, di Bassolino e di altri compagni, lo stesso emergere di un’area socialista riformista, e la posizione di tanti compagni che, pur accettando il PDS, non vorrebbero rinunciare al socialismo.

E perché considero la rifondazione comunista non una mozione, ma un impegno culturale e politico di lunga lena, attorno alla quale costruire un movimento, non ristretto all’ambito organizzativo del PCI attuale (dal quale è fuoriuscita una vasta area di comunisti e che ha perso il rapporto con le nuove generazioni).

Siamo in campo per evitare che il congresso segni una svolta irreversibile nel senso che ho indicato.

Ma siamo in campo, ancor di più, per porre in Italia la questione dell’esistenza di una forza politica e sociale che, partendo dalle grandi e crescenti contraddizioni del capitalismo – la questione Nord-Sud, la questione ambientale, la questione di classe, i processi di emarginazione, l’intreccio con la grande questione femminile – riproponga in termini nuovi e avanzati la questione del socialismo.

Siamo in campo per evitare che la democrazia sia azzoppata dal rifluire nel disimpegno e nella astensione di tanta parte del mondo del lavoro privato di vera rappresentanza, siamo in campo per costruire con le nuove generazioni una prospettiva nuova, respingendo l’omologazione ai modelli imperanti di una società dominata da una concentrazione senza precedenti del potere.

Sappiamo di indicare una via non facile e aspra, oggi controcorrente.

Una forza politica che non abbia la capacità di stare nelle ragioni di fondo della storia, e si pieghi a mode e condizionamenti esterni, va fatalmente alla deriva. Una cosa è rifondarsi, altra cosa è abiurare.

LUCIO LIBERTINI

Perché un movimento per la rifondazione comunista
l’Unità, 14 dicembre 1990

 

Basso Massone?

Lelio Basso massone? Cronaca di un processo politico staliniano

di Giorgio Amico

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 Lelio Basso. rappresenta una delle figure più luminose, per coerenza umana e politica, del socialismo italiano. Una figura ancora viva come dimostra l’interesse nei suoi confronti da parte della ricerca storica. Citiamo per tutti “Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialismo eretico”, agile ma approfondita ricerca di Sergio Dalmasso, autore tra l’altro di una recentissima bella biografia politica di Lucio Libertini su cui intendiamo ritornare presto.

Una vita movimentata e complessa quella di Basso, già giovanissimo cospiratore antifascista ai tempi dell’Università, su cui, come si è detto, si è scritto moltissimo e in modo largamente esaustivo. Un solo episodio resta ancora da chiarire: la sua repentina esclusione dal gruppo dirigente del PSI nel 1951.

Una “brutta storia”, secondo Elio Giovannini. La pagina peggiore del periodo ultrastalinista del PSI, durato dal 1948 al 1954, e in gran parte dovuto alla gestione organizzativa di Rodolfo Morandi. Un periodo caratterizzato da un allineamento totale al Pci, dall’esaltazione grottesca dell’URSS e di Stalin, ma anche da espulsioni di dissidenti, sbrigativamente definiti “agenti della borghesia e provocatori infiltrati”, e da veri e propri processi politici con il contorno abituale di insulti e insinuazioni anche sulla vita privata dei malcapitati finiti nel mirino dell’apparato. Tutto questo toccò a Lelio Basso, fatto oggetto di una campagna di calunnie e insinuazioni e poi processato a porte chiuse e di fatto espulso dagli organismi dirigenti del partito. “Una mediocre rappresentazione – è stato notato -, talvolta miserabile, comunque dolorosa” della tragedia feroce che si consumava in quegli stessi anni in Unione Sovietica e nelle cosiddette Repubbliche Popolari nel silenzio complice della sinistra italiana e dei tanti intellettuali, pure ipercritici di ogni aspetto della società occidentale, che la fiancheggiavano.

Gratis il primo capitolo del libro di Sergio Dalmasso su Lelio Basso:

Download “Primo capitolo del libro Lelio Basso” Capitolo1-Lelio-Basso-La-ragione-militante.pdf – Scaricato 48923 volte – 308,09 KB

Dal congresso di Firenze del maggio 1949 era uscita anche se di misura una nuova direzione, frutto della vittoria delle due mozioni di sinistra, quella di Nenni-Morandi e quella di Basso che aveva raccolto attorno alla sua rivista “Quarto Stato” una serie di giovani e promettenti quadri fra cui Gianni Bosio, Luigi Anderlini e Francesco De Martino.

Insieme i due gruppi si erano imposti al congresso contro la vecchia maggioranza centrista uscita dal congresso di Genova del 1948, ma fin da subito iniziarono a manifestarsi fra Basso e Morandi incomprensioni e contrasti sia politici che personali. Una situazione ancora oggi di difficile definizione, “una frattura – ricorderà trent’anni dopo De Martino – i cui termini sono poco comprensibili sul piano politico”. Affermazione sibillina che sottintende come, soprattutto da parte di Morandi, giocassero molto fattori personali ed emotivi.

Insomma, a Morandi, allora interamente teso ad assumere il pieno controllo del partito, Basso faceva ombra e andava in qualche modo liquidato, mentre con Nenni, che impersonava fisicamente il Psi e la sua storia e dunque era intoccabile, ci si poteva limitare a una forma blanda di messa sotto tutela. Cosa di cui il vecchio leader socialista era pienamente consapevole, tanto da tenere in quel drammatico frangente una posizione di basso profilo e dopo un diretto, e brutale, confronto con Morandi e i suoi principali sostenitori, tirarsi indietro e abbandonare Basso al suo destino.

Una situazione “difficile e tormentata” come racconta lo stesso Basso nel 1979 in un dibattito su Psi e stalinismo pubblicato sulla rivista teorica del partito Mondo operaio. È Basso stesso a ricostruire i fatti in un articolo apparso nel 1963 su problemi del Socialismo e significativamente titolato “Vent’anni perduti?”:

«In quegli anni l’incompatibilità fra le sue [di Morandi, NdA] e le mie posizioni era evidente e nella misura in cui dalle sempre più scarse tribune che mi erano consentite cercavo di difendere la mia posizione, mi ponevo in urto con la politica ufficiale del partito.

In particolare ricordo due articoli di quel periodo che fecero addirittura scandalo in seno alla Direzione del Psi e furono praticamente all’origine delle mie dimissioni. Uno apparso in Quarto Stato nel maggio 1950 conteneva affermazioni, che oggi sembrano banali ma che allora suonavano eretiche, circa la diversità delle vie al socialismo, circa la carica dinamica dell’imperialismo e la sua capacità di sfuggire all’attesa “crisi finale”, ma soprattutto circa la non inevitabilità della guerra. “Rappresenta questa terza guerra mondiale lo sbocco necessario della complessa situazione attuale? Evidentemente no.

Se è vero che l’imperialismo è spinto alla guerra dalla logica stessa delle sue contraddizioni, dai profondi squilibri che crea la sua azione nel mondo, dalla sua incapacità a risolvere la crisi ormai permanente e generale del sistema, dalla folle corsa agli armamenti che è diventata un elemento indispensabile della sua vita economica e una condizione per l’accumularsi di maggiori profitti, è altresì vero che nulla vi è di fatale nella storia, e che l’azione cosciente degli uomini è in definitiva una creatrice di storia infinitamente più ricca di possibilità. E fra queste possibilità vi è quella d’impedire all’imperialismo di scatenare la sua terza guerra».

Ma più grave ancora apparve un articolo da me pubblicato in Francia in cui difendevo la mia concezione dell’unità d’azione e criticavo quei compagni «che confondono l’unità d’azione con l’assoluta identità fra i partiti “ignorando le differenze storicamente consolidate fra i due partiti, differenze, dicevo, «destinate a sparire, ma destinate a sparire non per volontà di alcuni dirigenti, non per accordi ai vertici, ma in base all’esperienza stessa unitaria delle masse».

E concludevo: «Come Lenin ha insegnato con particolare insistenza, l’esperienza delle masse costituisce la via insostituibile attraverso cui la classe operaia consegue dei risultati duraturi. Anche in questo caso perciò il marxista-leninista sa di dover modificare la realtà, ma sa di poterla modificare in quanto l’assuma come punto di partenza per la sua azione, e non in quanto la ignori; sostituire alla realtà una formula che corrisponde soltanto ai propri desideri, sostituire al processo il miracolo, significa essere chiusi alla vera mentalità dialettica, che è il fondamento del marxismo».

Queste prese di posizione significarono la “rottura definitiva”. Uno scandalo per i fautori della linea morandiana. Ricordiamo che Morandi nell’aprile 1950 al convegno giovanile di Modena sosterrà come un dogma la tesi che la politica unitaria doveva essere fondata sulle identità e non sulle differenze fra Psi e Pci.

Nel 1950 dunque lo scontro , finora latente, matura ed esplode pubblicamente. Basso viene investito da una campagna progressivamente crescente di accuse di deviazionismo e di frazionismo non prive di insinuazioni sulla sua vita privata. Basso è accusato di essere trotskista, nemico dell’Unione Sovietica e dell’unità organica con i comunisti, in “combutta” con agenti dell’imperialismo americano come Tito e l’ex ministro degli esteri ungherese László Rajk processato per titoismo e sbrigativamente impiccato il 15 ottobre 1949.

Agli attacchi seguono i fatti: Basso è costretto a cessare la pubblicazione della sua rivista Quarto Stato, le sue attività di dirigente dell’Ufficio ideologico-culturale del partito boicottate, i suoi viaggi e i suoi incontri con compagni spiati. In una parola, si cerca con ogni mezzo di fargli il vuoto attorno. I suoi principali sostenitori, soprattutto fra i giovani, come Elio Giovannini responsabile degli studenti socialisti, sollevati dai loro incarichi.

Così venne sviluppandosi via via una tensione, che si accentuò col passare del tempo”, sono parole di De Martino che ne spiega anche le cause: “La nostra critica riguardava principalmente la scarsa democrazia interna e i metodi che si stavano instaurando nel partito”, insomma la svolta ultrastalinista di Morandi.

Basso se ne lamentò direttamente con Nenni con una lunga lettera del 13 settembre 1950, la risposta fu raggelante:

«La posizione da te assunta verso i nostri uffici e i loro dirigenti è stata ingiusta nelle sue motivazioni e poteva riuscire ed in parte è riuscita deleteria nelle conseguenze. È nata da questa tua critica , portata fuori dalla sua sede naturale, l’accusa di cui ti duoli di lavoro di frazione o comunque personalistico. Ora tale accusa è venuta da troppe parti contemporaneamente perché la possa ritenere puramente e semplicemente arbitraria. […] una situazione che non è sorta oggi, ma dura da anni, dura dal Congresso dell’Astoria, da dove ha inizio il tuo tentativo di dividere la sinistra».

A questo punto Basso ha chiaro che la battaglia dentro l’apparato del Psi è definitivamente persa. Il 28 settembre si tiene a Roma una riunione dell’esecutivo socialista in cui Basso viene esplicitamente accusato di frazionismo. Eloquente il resoconto che ne fa De Martino:

«In tale riunione, mentre Nenni taceva, vi fu una sorta di processo, nel corso del quale l’accusa rivolta a Basso era di frazionismo e di attività nociva dell’unità del partito. Ad uno ad uno i membri dell’esecutivo formularono la loro critica. […] Basso non si difese né fece valere le nostre ragioni. Egli appariva rassegnato ad un evento che giudicava inevitabile. Solo chi scrive, nuovo dei rituali in uso in quel tempo nei pariti operai, tentò una difesa di Basso, suscitando la reazione di impazienza e di fastidio di Morandi».

In realtà De Martino fece di più. Nei giorni successivi avvicinò Amendola e Pajetta affinché il Pci intervenisse a favore di Basso, e i due esponenti comunisti lo fecero ricevendone in risposta l’invito a non ingerirsi negli affari interni del Psi, ma evitando tuttavia (è Basso stesso a raccontarlo su Mondo Operaio nel 1979) con il loro intervento che egli fosse addirittura espulso dal partito per i suoi presunti contatti con l’ungherese Rajk.

Alla riunione dell’Esecutivo fece seguito un colloquio privato con Morandi, i cui termini furono mantenuti rigorosamente celati anche ai collaboratori più stretti come De Martino. Basso ne uscì completamente annichilito e non tentò più nessuna resistenza.

Fu il segnale della liquidazione definitiva della sua corrente. Al Congresso di Bologna del gennaio 1951, il “congresso della vergogna”, come lo definisce Giovannini, Basso e i bassiani furono estromessi dalla Direzione e poi nel successivo congresso, quello di Milano del 1953, anche dal Comitato centrale.

Da allora fino al 1954 fra Basso e Morandi non ci fu più alcun tipo di rapporto, né politico né personale.

L’atteggiamento rassegnato di Basso stupì tutti, soprattutto i suoi compagni più stretti, uno dei quali gli chiese direttamente ragione con una lettera del 10 ottobre 1950 del “tuo inspiegabile comportamento passivo. Il giornale della Nuova Stampa parla di una questione morale che avrebbe, a quanto si capisce, dato la possibilità ai morandiani di farti un ricatto”

Ma allora cosa era accaduto nel colloquio a due di tanto grave da convincere un uomo combattivo e deciso come Basso a desistere dalla lotta e a lasciarsi cacciare senza reagire? Di che questione morale si trattava? Non è allo stato attuale dato saperlo, ma forse la risposta si trova in un piccolo, ma molto interessante, libro uscito su tutt’altro argomento nel 2005.

Nel 2005, dicevamo, Massimo della Campa, prestigioso avvocato, antifascista e presidente della Società Umanitaria fiore all’occhiello del socialismo riformista milanese, ma soprattutto Gran Maestro onorario del Grande Oriente d’Italia e dunque persona assai informata in materia di cose massoniche, pubblica un libro dal titolo significativo: “Luce sul Grande Oriente.

Due secoli di massoneria in Italia”, in cui racconta con abbondanza di dettagli episodi noti e meno noti della storia del GOI. Parlando della Massoneria milanese della fine anni ’40 inizio anni ’50, Della Campa

scrive:

«In verità quell’epoca era dominata da passioni accese e molto violente derivate dalla spaccatura in due della vita internazionale e di quella politica. Basti solo ricordare i socialisti, divisi allora fra pro-sovietici e pro-occidentali. Quelli più anziani ricordano le liti furibonde non solo fuori loggia, fra sostenitori del Patto atlantico ed avversari (a Milano, Lelio Basso quasi venne alle mani con un fratello antagonista)».

In colloqui avuti con Aldo Chiarle, conosciutissimo socialista savonese, ma soprattutto massone dal 1945, già segretario della Massoneria Unificata d’Italia e poi Gran Maestro onorario del GOI e 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, gli abbiamo posto più volte la questione. Chiarle sempre ci rispose che la cosa gli risultava vera, ma che non aveva riscontri ufficiali. L’ultima volta che ne parlammo, mi promise di visionare gli archivi centrali del GOI e di darmi una risposta certa. Ma non ci fu più occasione di rivederci. Morì prima di poterlo fare, a 87 anni, nel luglio del 2013.

Sulla base di queste fonti ci pare non improbabile che l’argomento usato da Morandi per piegare definitivamente la resistenza di Basso sia stato proprio la sua appartenenza alla Massoneria che, se rivelata pubblicamente, ne avrebbe immediatamente causato l’espulsione da un partito allora profondamente stalinista.

I tempi erano quelli, bastava poco per essere espulsi con motivazioni infamanti. Esemplare a questo proposito il caso di Giuseppa Pera, dirigente della Federazione socialista di Lucca, poi prestigioso docente di Diritto del lavoro, espulso nel 1952 per “tradimento” per aver coltivato “legami con movimenti nemici del partito e della classe lavoratrice” [Il movimento dei comunisti dissidenti di Cucchi e Magnani, NdA].

Basso conosceva perfettamente queste dinamiche e, anche se con una profonda sofferenza interiore testimoniata dalle sue lettere, fu costretto a prenderne atto se voleva comunque continuare, anche come semplice iscritto di base, la sua militanza nel partito alla cui costruzione aveva dedicato gran parte della sua giovinezza.

Per saperne di più:

Lelio Basso, Vent’anni perduti?, Problemi del Socialismo, nn.11-12, 1963.

Lelio Basso (et Alii), Il PSI negli anni dello stalinismo, Mondo Operaio, n.2, 1979.

Sergio Dalmasso, Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star Press, Roma 2018.

Francesco De Martino, Storia di Lelio Basso reprobo, Belfagor, vol. 35, No. 4 (3 luglio 1980).

Massimo della Campa, Luce sul Grande Oriente. Due secoli di massoneria in Italia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005.

Elio Giovannini, Una brutta storia socialista dei tempi di Nenni: la “liquidazione” di Lelio Basso, in: Giancarlo Monina (a cura di), Il Movimento di Unità Proletaria (1943-1945), Carocci, Roma 2005.

Luciano Paolicchi (a cura di), Lelio Basso Pietro Nenni Carteggio, Editori Riuniti University Press, Roma 2011.

Giorgio Amico

Savona, 25 luglio 2020

Download del saggio di Giorgio Amico