La ragazza occitana. Vita movimentata di Dominique Boschero
Nando MAINARDI, La ragazza occitana. Vita movimentata di Dominique Boschero, San Cesario di Lecce, ed. Manni, 2024.
Nando Mainardi ha al proprio attivo, oltre ad un libro sul calcio, di cui è appassionato, molti testi su figure significative della musica leggera italiana, nella profonda trasformazione che ha subito tra il genere melodico e la stagione del rock e dei cantautori.
Da qui, i due lavori su Enzo Jannacci, Il genio del contropiede (2012) e L’importante è esagerare. Storia di Enzo Jannacci (2017),
una panoramica sulla figura di Giorgio Gaber, nel suo passaggio dalla “canzonetta” al “teatro canzone” e nel suo rapporto con le trasformazioni culturali e politiche degli anni ’70: La magnifica illusione. Giorgio Gaber e gli anni ’70 (2016),
sino al personaggio di Adriano Celentano, mito del rock di fine anni ’50, sino al successo di una trasmissione televisiva, Il figlio della foca. Celentano e Fantastico (2021).
Il recente libro su Dominique Boschero è solamente in parte lontano da quelli precedenti.
Mainardi, attraverso la vita di una attrice di film che non entrano certamente nella storia del cinema, riesce a ricostruire una vicenda collettiva, le trasformazioni, non solamente del cinema, ma del nostro paese.
Parigi, Frassino.
Dominique nasce a Parigi nel 1937, da emigrati italiani, originari di Frassino, un piccolo borgo in valle Varaita (Cuneo); la famiglia è povera: il padre è guardiano in un deposito, la madre portinaia. Quattro fratelli.
Quando ha otto anni, a guerra finita, la famiglia decide che Dominique debba andare a Frassino, con le ovvie difficoltà,
il passaggio dalla grande città ad un villaggio di montagna, la non conoscenza della lingua, l’ingresso in una nuova famiglia. È un cambio di vita totale, con la scoperta delle radici.
A 15 anni, la famiglia ha bisogno di lei. Dominique rientra a Parigi; lavora alla bancarella di un mercato, poi in una fabbrica di lampadine, scopre i quartieri eleganti e “di vita” della città, finisce in un atelier di moda, … CONTINUA
Troppo spesso si danno per scontate conoscenze storiche del periodo compreso tra la Prima guerra mondiale e gli anni Duemila, colpevolmente trascurato anche dai programmi scolastici.
Per queste ragioni è stato organizzato un corso su fascismo e antifascismo di cui questo volume ne raccoglie le risultanze.
Un testo di facile accesso per lettori di ogni età con l’obiettivo di illustrare il fenomeno delle nuove destre che si rifanno ideologicamente al fascismo nonostante il divieto contenuto nella XII Disposizione della Costituzione:
«È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Il Canale YouTube di Sergio Dalmasso è una preziosa risorsa che offre un affascinante viaggio nel mondo della storia, della politica e della cultura attraverso gli occhi dello stimato storico. Con ben 86 video (attualmente), il canale si presenta come un archivio ricco di conoscenze, in cui Sergio Dalmasso presenta i suoi nuovi volumi, esplora i Quaderni del CIPEC e approfondisce l’attualità del pensiero di figure iconiche come Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg, Che Guevara e altre figure importanti per il movimento operaio.
Gli spettatori avranno l’opportunità di immergersi nelle riflessioni di Dalmasso sulla storia politica italiana e internazionale, con particolare attenzione a eventi cruciali come i cento anni dalla Rivoluzione Russa. Le presentazioni di nuovi volumi offrono uno sguardo privilegiato sulle idee fresche e gli approfondimenti dell’autore, contribuendo a rendere accessibile un sapere di grande valore.
La varietà di argomenti presenti nei video crea un ambiente educativo e informativo che copre una vasta gamma di temi, contribuendo così a una comprensione più profonda della storia e della società.
Sergio Dalmasso emerge come una guida autorevole, fornendo non solo informazioni storiche accuratamente documentate, ma anche interpretazioni illuminate che stimolano la riflessione critica.
Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.
Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.
Stupefacenti anzitutto due cose.
La prima: la capacità sintetica del Niccolini, il quale è riuscito con maestria a ridurre quel meraviglioso romanzo dello scrittore ucraino-austriaco, nel quale si condensa una molteplicità poliedrica di vicende che riflettono in parte la vita di Roth vissuta quasi da “ebreo errante”.
La seconda: l’abilità narrativa dell’attore, il quale ha saputo raccontare l’essenza di ogni singolo personaggio, prestando ad essi la voce e adattandovi l’inflessione tonale, senza mai cadere nel banale e nel ridicolo.
Anche perché la storia che egli raccontava, pur riguardando persone umili e semplici come Mendel Singer – ulteriore pseudonimo di Giobbe, che nel testo sacro viene presentato come ‘ish tam veiashàr, uomo integro e retto –, tratta in realtà di una tragedia, ossia della banalità attraverso cui si insinua e si manifesta non solo il tragico e il male, ma anche la dolorosa insensatezza dell’esistenza.
Sia Giobbe di Uz, sia Mendel Singer di Zuchnov, infatti, sono la simbolica attestazione del fatto che dinanzi alle dure prove che la vita riserva, l’uomo è tentato di negare un senso a ciò che invece, seppure difficile a vedersi, un senso ce l’ha e come.
Sono la rappresentazione del tentativo di voler ridurre e ricondurre, anche inconsapevolmente, il senso solo all’umano e non al divino, come se la dimensione del senso dipendesse solo dall’agire dell’uomo, ossia da un agire calcolabile e programmabile e non anche invece dall’intervento miracoloso del divino o del divino caso.
In fondo, malgrado la loro pur evidente e persino ostentata sottomissione al Signore, nonostante il loro timore e tremore dinanzi a Dio, i loro “perché?” – Làmmah? Maddùa’? – innalzati dai due sventurati come suppliche al loro Signore non esprimono altro che questa specie di hýbris ferita, ossia l’arroganza umana che si vede di punto in bianco privata della propria (illusoria) autorità in merito alla costituzione del senso.
Sia il dramma biblico sia la ripresa rothiana di esso, con modalità e con efficacia differenti, sono la drammatizzazione di questa specie di pólemos, di contesa sul senso: una drammatizzazione che gioca narratologicamente sulla possibilità del miracoloso e del sorprendente, capace di umiliare l’uomo (che è humus, polvere e cenere, è terra, adamàh) e di persuaderlo, malgrado la sua ostinata protervia, circa il fatto che non tutto dipende dalla volontà umana, e che quanto c’è di più importante per lui, vale a dire la sua vita e la sua morte, dipende sempre da altro.
Certo, sia Giobbe sia Mendel Singer sono profondamente devoti al Signore: la loro vita e la loro morte sono quotidianamente rimesse nelle sue mani.
Ma in virtù di questa assoluta devozione essi, ragionando con l’unica logica di cui possono disporre, ossia quella umana, che è quella del do ut des, del dare per avere, si aspettano con una certa pretesa che Dio li tratti diversamente dagli altri che sono meno fedeli di loro.
Quanto meno, dopo l’abbattimento su di essi dello spaventoso inatteso, dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, insomma del disumano, essi si attenderebbero che Dio si abbassasse verso di loro e spiegasse per filo e per segno i motivi di cotanta durezza, mostrasse loro dove esattamente e cartesianamente hanno sbagliato per meritare questo castigo, questa pena insoffribile, questa assurda prova.
Come se l’essere umano, gettato in un mondo in cui tutto è destinato alla consunzione, potesse con i suoi pharmakoi, con i suoi cataplasmi medicamentosi sempre più efficaci, sfuggire alla distruzione e all’annientamento.
Eppure, non si avvede l’uomo che la vita altro non è che un diuturno sfuggire alle grinfie della morte?
Non si accorge Giobbe che molti dei miserabili che tenta di salvare scompaiono nel nulla?
Eppure egli, secondo il Job di Fabrice Hadjadj, non sembra essere così ipocrita come i suoi amici.
E poi, non si rende conto Mendel di quanto egli sia debole e impotente di fronte al destino dei suoi figli e di Menuchim in particolare?
Egli infatti non ha la forza dell’Abdia (altro nome per Giobbe) di Adalbert Stifter né quella di sua moglie Deborah, non sa comprendere la saggezza della femme de Job nella pièce di Andrée Chedid.
La speranza è l’ultima a morire: questo ci trasmette il mito giobbico, specie nella bella e luminosa versione di Joseph Roth.
Il messaggio che esso ci tramanda, pur in quest’epoca della postverità e dell’assenza del divino, ribadisce un principio che sembra essere inscritto nel dna dell’uomo, un principio che, proprio per questo, la dura realtà satanica non riesce a smontare e a cancellare, non riesce a farla passare come una fake news: il principio della necessaria priorità del negativo, secondo cui il senso si può rivelare all’uomo solo nel e attraverso il dolore.
28 febbraio 2019
GIOBBE Storia di un uomo semplice / Teatro d'Aosta 2017:
https://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2022/01/Sergio-Dalmasso.png00Franco Di Giorgihttps://www.sergiodalmasso.com/wp-content/uploads/2022/01/Sergio-Dalmasso.pngFranco Di Giorgi2019-02-28 19:45:412019-02-28 20:04:51Giobbe di Roberto Anglisani
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