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La scelta di Sophie, saggio di Franco Di Giorgi

Il saggio del prof. Di Giorgi è stato pubblicato nel quaderno cipec numero 52

Quaderno a stampa, marzo 2014, Centro Stampa della Provincia di Cuneo

La scelta di Sophie di Franco Di Giorgi

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Traduzione del video in italiano

Dal romanzo di William Styron, Sophie’s Choice, la cui prima edizione è del 1976, nel 1982 ne è stato tratto un film che valse il premio oscar alla grande Meryl Streep, attrice protagonista di Sophie.

Traduzione in italiano del dialogo nel breve filmato tratto da “La scelta di Sophie”, sopra mostrato (dal tedesco – nella traduzione inglese vi sono degli errori):

Hauptsturmführer: Lei è così bella,
Hauptsturmführer: vorrei portarti a letto, a fare …
Hauptsturmführer: Sei polacca?
Hauptsturmführer: Tu!
Hauptsturmführer: Sei anche tu una di quei sporchi comunisti?
Sophie: Sono polacca!
Sophie: Sono nata a Cracovia. Non sono ebrea, neanche i miei figli!
Sophie: Non sono ebrei, dal punto di vista razziale sono puri!
Sophie: Sono cristiana! Sono cattolica praticante!
Hauptsturmführer: Ma tu non sei comunista?
Hauptsturmführer: Tu credi in …
Sophie: Sì, sono credente in Cristo.
Hauptsturmführer: Tu credi in Cristo, il Redentore?
Sophie: Sì.
Hauptsturmführer: Lui non aveva detto “Lasciate che i bambini vengano a me”? Tu puoi tenerti un bambino.
Sophie: Come, per favore?
Hauptsturmführer: Tu puoi tenerti uno dei tuoi bambini. L’altro deve scomparire.
Sophie: Ma Lei dice che devo scegliere?
Hauptsturmführer: Lei è polacca non ebrea.
Hauptsturmführer: Allora ha un certo privilegio, un diritto di prelazione.
Sophie: Non posso scegliere!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer:Stia zitta!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Via, le mando via ambedue!
Hauptsturmführer: Faccia una scelta!
Sophie: Non posso scegliere! Non posso!
Hauptsturmführer: Mando ambedue in là.
Sophie: Noo!
Hauptsturmführer: Smetti adesso! Chiudi il becco e scegli! Dai deciditi e scegli!
Sophie: Non mi faccia scegliere, non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Mandi ambedue di là!
Sophie: Non posso scegliere!
Hauptsturmführer: Prenda ambedue i bambini! Su!
Sophie: Prenda la piccola!
Sophie: Prenda la mia piccola!

***
parte 2 del saggio di Franco Di Giorgi :

2. Insieme a molti prigionieri, tra cui Wanda e altri componenti della resistenza polacca, il 1º aprile 1943, Sophie Zawistowska giunge con il treno sino all’interno del Lager di Auschwitz-Birkenau.

Una volta scesa sulla banchina ferroviaria, si trova dinanzi un giovane Hauptsturmführer, dottore in medicina, medico addetto alle selezioni.

Stingo – l’io narrante e protagonista egli stesso del romanzo – lo battezza Fritz Jemand von Niemand: letteralmente ‘Qualcuno di Nessuno’, qualcuno che viene dal nulla; Jemand von Nichts si potrebbe dire, o meglio ancora Jemand von Nacht, qualcuno che proviene dalla notte, perché Sophie in due anni di Lager non era mai riuscita a conoscerne il nome.

Mutuando poi un’espressione heideggeriana si potrebbe definirlo Platzhalter der Nichts o Platzhalter der Nacht, sentinella del niente o sentinella della notte.

E per un filosofo come Heidegger attento alle etimologie e alle radici greche della lingua germanica, per un pensatore che ha saputo cogliere la coincidenza tra Geschichte e Geschick, tra storia e destino, non doveva essere poi tanto difficile individuare anche quella tra Nichts e Nacht. Sophie vi giunge con i suoi due figli, Jan, il maggiore, di dieci anni, ed Eva, di otto.

Essa viene catturata non perché ebrea né perché oppositrice del regime nazista, ma solo perché nascondeva sotto il vestito una coscia di prosciutto per la madre. Tutto il cibo allora, secondo le esigenze belliche, veniva requisito dai soldati tedeschi.

Sophie è una giovane polacca molto bella, figlia unica di due professori universitari: il padre, Zbigniew Biegański, docente di giurisprudenza all’antica università jagellona di Cracovia e antisemita per convinzione; la madre docente di musica presso la medesima università.

Già nel 1938, il padre aveva scritto un piccolo libello (Die polnische Judenfrage: Hat der Nationalsozialismus die Antwort?) nel quale delineava l’abolizione totale o la soluzione finale degli ebrei di Polonia, individuando alcuni luoghi di deportazione, fra cui il Madagascar.

Egli aveva voluto che sin da giovanissima, a sedici anni, Sophie imparasse la stenografia e la dattilografia. Fu essa infatti che trascrisse e batté a macchina tutte le idee antisemite del padre, aiutandolo persino a diffondere il libretto stampato in proprio nelle università di Cracovia. Anche il marito di Sophie, Kazik Zawistowski, era antisemita, e divenne ben presto collaboratore zelante del suocero.

Quando nel settembre del 1939 i tedeschi invadono la Polonia e il Capo della sezione giuridica del Partito nazionalsocialista, l’avvocato ebreo – «mirabile dictu»! (p. 301) – Hans Frank, insediatosi nel castello della Wawel di Cracovia, divenne il governatore della Polonia occupata (ossia della parte occidentale che, appena un mese prima, Hitler, con il patto Ribbentrop-Molotov, aveva ottenuto dall’accordo con Stalin), l’intellighentia universitaria di Cracovia e polacca in generale fu logicamente la prima ad essere arrestata e deportata nel campo di Sachsenhausen, creato dalle SA nel 1935-36 al posto di quello di Oranienburg, a nord di Berlino.

Lager nel quale, provenendo dalla scuola di Dachau, Rudolf Höss, dal 1° agosto 1938 svolge la mansione di amministratore del comandante e di Schutzhaftlagerführer, segretario addetto al disbrigo della corrispondenza ufficiale con le autorità esterne. A nulla, ovviamente, valsero le proteste del prof. Biegański e di suo genero: entrambi trovarono la morte in quel Lager.

  • Saggio presente nel Quaderno CIPEC numero 52:

Download “Quaderno CIPEC numero 52 (Contiene i saluti ai bovesani di Sergio Dalmasso)”

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Franco Di Giorgi

NOTE A MARGINE DELLA PANDEMIA

Da circa due anni a questa parte, ogni giorno, alla solita ora, con la scadenza e la precisione monotona di una medicina, gli speaker televisivi diffondono le notizie sulla pandemia, quasi nello stesso modo in cui il mal’àkh, il messaggero, le comunica a Giobbe. A pensarci bene, tuttavia non è tanto il loro contenuto nefasto (il numero dei morti o i ricoverati in terapia intensiva) che viene immediatamente recepito e che alla lunga infastidisce, quanto piuttosto la strana accentatura, quasi una vera e propria inflessione, con cui alcuni giornalisti le divulgano. Questo singolare accento fa pensare a una lezione impartita da maestri impettiti, quasi come un rimprovero, una ripetizione risentita per discepoli poco attenti. La monotona prosodia ricorda una cantilena lamentosa e annoiata. Il tono risuona risentito, monitorio, quasi sdegnato, colpevolizzante, offeso, infantile. Ma la cosa che più colpisce e indispone di questa specie di cantilena letargica, di cui peraltro ci si rende conto solo dopo averla quasi inconsciamente registrata, è accorgersi che sia proprio essa, questa accentazione eccipiente ad impedire di comprendere appieno il contenuto, il nucleo delle notizie stesse, specie se date velocemente una dopo l’altra, una sopra altra, senza soluzione di continuità. In tal modo rimane solo il peso, ma non il senso della gravità dei comunicati.

Dati Covid-19 del 15 novembre 2021

Inoltre, per suggerire ancora qualche nota a margine, sembra che oltre ai fragili e agli estremamente vulnerabili, questa pandemia abbia rivelato anche l’esistenza dei non catalogabili, di quelli che sono talmente fragili e vulnerabili da non poter essere sussunti in nessuna categoria, perché pare che per loro qualsiasi vaccino “potrebbe” essere deleterio. La medicina infatti non sa ancora come prendersene cura. Sicché, per essi l’unico rimedio per sopravvivere, più che il distanziamento, rimane l’evitamento, l’asocialità, vale a dire il lockdown permanente; e ciò non solo per il virus e per la paura del contagio, ma soprattutto per quei prodotti chimici che tutti gli altri (parenti compresi) usano normalmente proprio per ragioni igienico-sanitarie.

Ciò premesso, bisognerebbe a questo punto dire in tutta chiarezza che il reale pericolo di morte che pandemie come quella generata dal Covid-19 comportano dovrebbe necessariamente costringere alla temporanea messa in mora del libero arbitrio, vale a dire della facoltà che più contraddistingue l’individualità dell’essere umano, e della quale esso va maggiormente fiero. L’attuale epidemicità è tale infatti che, fatta eccezione per i non catalogabili, la libera scelta anti-vaccinale di un singolo è in grado di mettere a rischio la vita di molti altri, se non addirittura di un’intera comunità. Se, nonostante questa fondamentale esigenza etica, si continua ugualmente a voler esercitare il proprio libero arbitrio, è perché in coloro che lo pretendono l’individualismo non è più solo un’esigenza personale, quanto piuttosto una convinzione ideologica. Infatti, per quanto profonda possa essere l’influenza che un’ideologia può esercitare in una persona, un’esigenza è tuttavia tanto meno personale quanto è più ideologica. E in effetti, quelli che lo scorso 9 ottobre – a perfetta imitazione della preannunciata irruzione del 6 gennaio al Campidoglio degli Stati Uniti (e non sbagliava di certo chi allora pensò subito che una tale irruzione costituiva un buon precedente per altri trumpiani che intendessero reagire al cosiddetto establishment) –, quelli che allora, sfruttando l’individualismo sordido manifestato dalla nebulosa dei No green pass, dei No vax e degli Io apro, hanno (ri)dato l’assalto alla sede della Cgil di Roma, ebbene costoro sono proprio quelli che non sanno cosa farsene della responsabilità sociale. Viceversa, in quanto simbolo del socialismo operaio, la Cgil è da più di un secolo il sindacato sorto dalle società operaie di mutuo soccorso, le quali, esattamente un secolo fa vennero chiuse durante il periodo fascista proprio in ragione della loro connotazione sociale. In questo gesto violento dei neonazifascisti italiani, dai quali quella nebulosa di individualisti No vax non è riuscita a prendere nettamente le distanze – un gesto che prende solo a pretesto il disagio sociale generato dalla pandemia e che ha nell’azione violenta la propria cifra storica –, ecco questo gesto si può leggere come una sorta di kairós, di momento propizio – ricercato, pur in tutta la sua casualità – in cui si intersecano e si intrecciano sorprendentemente due delle direttrici fondamentali della storia del Novecento, costitutive di un Dna, di un ordito storico in cui, come punto e contrappunto, si contrappongono dialetticamente socialismo e individualismo, solidarismo ed egoismo, internazionalismo e nazionalismo, come pure, traslandolo all’oggi, europeismo e sovranismo populista. Con la formula del nazional-socialismo, peraltro, a cui quei facinorosi ancora si ispirano, Hitler seppe in effetti sintetizzare “a suo modo” gli opposti, generando in Germania quel Reich dal quale, grazie a una politica biologica radicale, venne definitivamente eradicata ogni forma di socialismo solidale e internazionale, forma nella quale, com’è noto, si riconosceva buona parte degli ebrei occidentali emancipati e assimilati. Sicché se da un lato, a fronte del fatto che allora, per paura che gli ariani perdessero la loro purezza, l’ebreo (solo a causa della sua ebraicità) venne visto, ridotto, trattato e combattuto dal regime nazionalsocialista come un virus letale, oggi, dall’altro, risulta davvero altrettanto delirante il parallelismo o l’idea di chi pensa che i governi di tutto il mondo invitino le persone a vaccinarsi non per salvarle dal contagio del nuovo virus, ma per costringerle a un totalitarismo politico-sanitario.

Per fortuna, però, al di là di ciò, l’adesione della maggioranza degli italiani alla vaccinazione non sembra affatto il frutto di una semplice costrizione, della cieca obbedienza, del conformismo o dell’allineamento passivo, ma l’espressione di un senso eticamente attivo e partecipe di responsabilità per sé, per gli altri e per tutto quanto il Paese. Per questo, infatti, pur avendone costituzionalmente la facoltà, il governo non ha voluto imporre l’obbligo del vaccino e ha optato per il green pass, per uno strumento giuridico che mira più alla persuasione che all’obbedienza. Il rifiuto dei No vax, pur non essendo questi per la maggioranza non vaccinabili come i non catalogabili, nasce da un anticonformismo di maniera, da una disobbedienza assunta come presupposto infondato e desideroso di produrre una distanza, se non addirittura una distinzione ideologica tra sé e gli altri. Ora, proprio da questo punto di vista, non è forse ingenuo, superficiale, irresponsabile e in definitiva pericoloso scavare e approfondire ulteriormente, con il proprio prendere le distanze dagli altri, il distanziamento sociale e interpersonale che il contenimento del contagio purtroppo richiede? A chi giovano, a cosa servono le tesi complottiste di una tale minoranza disobbediente, se non, appunto, ad alimentare la violenza sociale che contraddistingue storicamente la destra nazifascista? Certo, l’esito del putsch di Monaco serve da monito per tutti; ma non si può continuare a riflettere su una questione (la chiusura di Forza Nuova) su cui, per quanto complessa e delicata, la Repubblica democratica italiana avrebbe dovuto decidere già da tempo, a partire almeno dal 1946, cioè a meno di un anno dalla liberazione dal nazifascismo, a partire dalla fondazione dell’Msi. Ciò induce a ritenere che proprio come allora, cioè dopo la terribile esperienza della guerra, specie quella civile, e soprattutto dopo Auschwitz, ci si era illusi di essersi definitivamente liberati dal fascismo e dal razzismo (con tutto il loro brutale armamentario di muri e di filo spinato), così anche ora, nel tempo penoso del lockdown, ci si andava illudendo che dopo l’esperienza della lotta contro il Covid-19 saremmo diventati migliori o quantomeno più consapevoli dei nostri errori. Ma ce ne hanno appena dato un’amara smentita – ahinoi! – sia il G20 di Roma che il Cop26 di Glasgow. Resi miopi da pressanti esigenze di sopravvivenza immediata, non riusciamo infatti a mettere bene a fuoco che sia i cambiamenti climatici sia la pandemia hanno ormai irreversibilmente crepato i pilastri, i fondamenti della nostra esistenza. Sicché ci è assai comodo a questo punto, sebbene non rassicurante, dire che il futuro verso cui stiamo procedendo ci è sconosciuto, perché dicendo questo ne neghiamo almeno intimamente l’angosciosa pericolosità. Ed è ovviamente difficile se non impossibile giungere a una tale consapevolezza per quei partiti che attingono molti dei loro consensi proprio dall’area dell’estrema destra.

Ben più complesso del semplicistico confronto tra queste due esperienze di lotta (quella contro la pandemia e quella contro la peste nazifascista) è dunque il loro intrecciarsi, il loro riannodarsi proprio in occasione dell’attacco vandalico alla sede della Cgil. Il problema a tal proposito non consiste solo nel chiudere l’acqua ai pesci più agitati, ma nel rendersi conto che nella vasca la tensione sociale può creare un effetto luciferino tale da agitare anche la variegata popolazione di pesci pacifici e pacifisti. Paradossalmente, infatti, i movimenti di estrema destra che hanno vandalizzato la sede della Cgil non sono altro che il frutto amaro del tentativo di defascistizzazione, di normalizzazione e di sdoganamento storico-politico operato da Gianfranco Fini nel 1995 con la svolta di Fiuggi e con la relativa nascita di Alleanza Nazionale, grazie all’occasione d’oro offertagli da Berlusconi l’anno precedente per farne una legittima componente del suo governo delle “libertà”. Anche la svolta della Bolognina, nell’89, causò l’allontanamento dei contrari alla proposta di Achille Occhetto, ma, pur posizionandosi a sinistra del Pds, del neonato Partito democratico della sinistra, non hanno mai manifestato il proprio dissenso violentemente contro i simboli della destra.

A tal proposito non si deve trascurare di aggiungere che l’attuale situazione pandemica costituisce un banco di prova per il nostro altruismo, cioè di quel senso etico che difetta nella mente dei complottisti e che certo fa difficoltà ad esprimersi in tutte quelle persone che per quasi mezzo secolo sono state nutrite con il latte nero dell’individualismo competitivo – una sorta di vaccino, questo sì, approntato ad hoc da stregoni della politica per combattere lo spirito solidaristico.

Comunque sia, al contrario di quanto credono i No vax, l’assalto alla sede di quel sindacato è invece la prova che confuta i loro dissennati confronti con il regime nazista. È del tutto evidente infatti che sono proprio quei facinorosi di destra – troppo disinvoltamente spalleggiati dagli stessi No vax – che si ispirano al nazifascismo, e non la maggioranza dei cittadini italiani vaccinati, i quali, proprio perché rispettosi della legge, vengono considerati dai negazionisti come tanti ubbidienti Eichmann, mentre loro, gli oppositori, oggi si sentono perseguitati come ieri lo sono stati gli ebrei. È inoltre un’evidente assurdità anacronistica quella di assimilare l’attuale governo a un regime dittatoriale, e ciò al solo scopo di giustificare la propria disobbedienza e la propria astensione, spacciandosi come una specie di minoranza eroica. A differenza dei partigiani, però, cioè di coloro che nel recente passato hanno davvero saputo dire di no, con la vita e con la morte, al male dei regimi totalitari, quelli che ora si oppongono alla politica vaccinale dell’attuale governo non possono dire di no al male, al virus, giacché per loro esso semplicemente non esiste, ma possono invece dire di no al bene, cioè ai vaccini, dal momento che, per la ragione premessa, risulterebbero del tutto inutili. In tal modo è chiaro che nemmeno la morte dei 150 mila connazionali potrà servire da prova contraria alle loro costruzioni mentali.

Pur sostenendo quindi contro ogni intuizione che non esiste nessuna pandemia perché semplicemente non c’è alcun virus, i No vax tuttavia continuano a considerarsi come il Covid, cioè come un virus che i governi, con il supporto di volenterosi medici specialisti, stanno cercando di debellare con il vaccino. Da qui nasce il loro avvilente paragone con gli ebrei vissuti sotto il Terzo Reich e la loro assimilazione dei premier, dei capi di stato e dei ministri della sanità a tanti Himmler o Hitler, i quali avevano pur detto che il mondo avrebbe riguadagnato la salute solo liberandosi degli ebrei. Al posto del vaccino è però utile ricordare che i nazionalsocialisti fecero ricorso al Zyklon B, all’ingrediente attivo dell’acido prussico, al gas asfissiante. In tal modo si dovrà perlomeno ammettere che mentre i nazisti volevano eliminare più ebrei possibile, viceversa scopo degli attuali governi (anche se purtroppo non di tutti) è quello di vaccinare, ossia di salvare più persone possibile, anche i No vax. L’obiettivo dei governi è l’immunità di gregge, quello dei nazisti era un Reich judenrein, purificato dagli ebrei. Il progetto dei primi è di salvare tutti, o quanti più esseri umani possibile; quello dei secondi era di salvare non tutti, ma solamente gli ariani, quelli che, secondo loro, erano degni di vivere; non quindi gli ebrei, non tutti gli altri indesiderabili, non gli oppositori, non gli zingari, non gli omosessuali (nemmeno pertanto tutti quelli che oggi si riconoscono nell’acronimo Lgbt), non gli affetti da gravi malattie rare ed ereditarie, i fragili, i vulnerabili, i non catalogabili, poiché per il fatto di essere ritenuti impuri, contagiosi e quindi pericolosi (un tempo qualcuno li definiva “malriusciti”), erano considerati unwertes Leben, vita indegna, cioè esseri la cui vita non aveva assolutamente alcun valore. Proprio come quella, diremmo, degli attuali migranti, rappresentativi di un dato a cui noi stessi ci siamo ormai abituati ascoltando le diuturne nenie lamentose dei cronisti. Gli attuali governi di buona parte del mondo mirano alla guarigione di tutti; per i nazionalsocialisti la Gesundung, la guarigione prevedeva una imprescindibile Judensäuberung, una epurazione degli ebrei razionalmente attuata dai freddi automatismi della burocrazia. I primi cercano in tutti i modi di sfuggire alla morte; i secondi, rendendola moralmente utile sotto forma di eutanasia, ne facevano invece uno strumento di Reinigung, di purificazione.

Inoltre, a differenza degli ebrei, che allora venivano isolati e ghettizzati in vista della loro eliminazione, i No vax, per esprimere il loro dissenso nei confronti della vaccinazione, si auto-isolano. E certamente la loro ostilità nei confronti del green pass sarebbe ben poca cosa rispetto a quella che essi manifesterebbero se il governo italiano avesse adottato la pur legittima misura dell’obbligo vaccinale per tutti. In tal caso essi avrebbero sicuramente inteso questa obbligatorietà del green pass come un provvedimento simile a quello introdotto da Goebbels nel novembre del 1941, con il quale, scrive Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto, si costringevano gli ebrei a portare la stella di Davide come «una misura di “profilassi igienica” (il Mulino, Bologna 1992, pp. 101-108). In tal caso avremmo visto sfilare i contestatori con addosso una stella simile. E così in effetti è stato l’estate appena trascorsa in molte città italiane. Come se utilizzare a piacimento per il proprio tornaconto quei simboli del male assoluto fosse una cosa degna per un’umanità razionale che ha prodotto e conosciuto l’Olocausto. E ciò si deve forse al fatto che le nostre società hanno smarrito non solo il senso dell’indignazione, ma anche il valore stesso della dignità – come pure quello del semplice vivere in un pianeta che l’inappagabile nichilismo della modernità ha reso e rende sempre più inospitale.

Per il governo italiano, poi, i No vax non sono affatto gli “indesiderabili” di cui il Terzo Reich si era liberato con la politica della sterilizzazione e dell’estinzione. Essi sono coloro che, non volendo vaccinarsi e rifiutando mascherina e distanziamento, mettono a rischio non solo la propria vita, ma con essa inevitabilmente anche quella di tutti coloro con cui sono in contatto. Non è un caso, infatti, che in questi giorni di fine ottobre, si registra un aumento dei contagi e di ricoveri proprio nelle città in cui si è manifestato più a lungo il dissenso, in barba alle misure precauzionali. È esattamente per questo motivo che alcuni Stati stanno pensando di attuare un lockdown ad hoc solo per i non vaccinati, mentre altri avanzano addirittura l’ipotesi di far pagare a questi le spese per un loro eventuale ricovero in ospedale. Attraverso l’applicazione del piano vaccinale anti-Covid, l’obiettivo finale dei governanti non è quindi eugenetico, non prevede cioè la selezione di una maggioranza di cittadini vaccinati da cui escludere una minoranza di non vaccinati – anche se, come si è accennato, il perdurare degli assembramenti potrebbe spingere anche il nostro governo verso un lockdown per i No vax. Quando questi ultimi urlano “libertà”, forse non si rendono conto (o si rendono perfettamente conto, secondo lo spirito del “prima gli italiani”) che con ciò essi rivendicano egoisticamente la libertà e il diritto di infettare gli altri; forse non hanno capito che, in casi di emergenza pandemica come quello in corso, le libertà, il libero arbitrio e i privilegi, di cui in altri momenti si può costituzionalmente godere, debbono, come si è accennato, essere temporaneamente e responsabilmente sospesi, posti – non dai governi e dalla politica, ma dalla coscienza di ogni singolo individuo! – in secondo piano per il bene dell’intera comunità. Questo l’umile insegnamento resiliente della natura violentata da un’umanità irriguardosa e antropocentrica, la quale sin dall’inizio ha fatto del suo diritto uno strumento di dominio, vale a dire un elemento contro natura. Certo, in società da tempo strutturate sul diritto all’individualismo competitivo, per molti è ancora difficile applicare su di sé questa epoché, compiere questo temporaneo autoporsi fra parentesi, fare questo passo indietro. Sembra però che gli italiani (già vaccinati, peraltro, quasi al novanta per cento) stiano superando questo genere di difficoltà e siano disponibili anche per una terza dose. In sostituzione del vaccino, messo a disposizione gratis dallo Stato, ai riottosi viene data la possibilità del tampone, pagato giustamente a loro spese. Sicché, eccezion fatta per coloro che hanno seri e fondati motivi per non vaccinarsi, ad un operaio, ad esempio, converrebbe vaccinarsi, per non andare a intaccare con un tale esborso aggiuntivo la sua già leggera busta paga.

Ciò per dire che è del tutto fuori luogo fare ricorso ai paragoni con il dramma vissuto dagli ebrei e dagli altri deportati al solo scopo di dare maggiore rilevanza e legittimazione alla propria protesta. Si tratta, in realtà, per così dire, di stereotipi “rovesciati” di sinistra, nel senso che fanno il verso agli stereotipi antisemiti di cui si servono notoriamente gli oppositori dell’estrema destra per fomentare nelle masse impoverite l’idea del complottismo elitario, dietro cui opererebbe di nascosto un subdolo burattinaio, un manovratore occulto che nella percezione della folla esagitata, a seconda delle occasioni, assume l’aspetto ora del capitalista ora dell’industria farmaceutica. Non ci vuole nulla in tali situazioni a passare dallo stereotipo dell’ebreo-vittima a quello dell’ebreo-responsabile, dal filosemitismo all’antisemitismo, dal filoisraelismo all’antiebraismo. È bastato poco infatti a trasformare una protesta contro il green pass in un assalto contro la sede di un sindacato, l’antagonismo di sinistra, civile e pacifico, in un antagonismo di destra, incivile e violento. E bene hanno fatto a questo proposito gli organizzatori della protesta triestina ad annullare alcune manifestazioni per timore di infiltrazioni da parte di antagonisti filofascisti. «In effetti – non lo diciamo noi, lo diceva già Bauman in quel suo saggio del 1989 – sarebbe opportuno evitare la tentazione di utilizzare l’immagine disumana dell’Olocausto al servizio di un atteggiamento partigiano verso conflitti umani più o meno gravi» (op. cit., p. 129). Di recente, infatti, per ostentare la loro presunta e infondata condizione di vittime, i dimostranti No vax, oltre ai gilet gialli e alle stelle gialle, hanno indossato anche una specie di giubbotto che ricorda la divisa dei deportati. Ma proprio questa assenza di ritegno nei confronti delle vittime dell’Olocausto (si veda il caso di Anne Frank, o quello, ancora più recente, della senatrice Segre, costretta da due anni ad essere scortata solo per aver proposto una legge che contrastasse i fenomeni di razzismo, di antisemitismo, di istigazione all’odio e alla violenza), ebbene proprio una siffatta assenza di scrupolo fa pensare che questo loro movimento, così connotato, sia anche l’espressione di elementi che si ispirano ancora, purtroppo, alla politica razziale adottata dagli ex carnefici.

A differenza che nel Terzo Reich, qui non c’è nessuna istigazione all’odio nei confronti dei No vax; c’è piuttosto un invito alla pazienza e alla resistenza, c’è una legittima campagna di convinzione per uscire quanto prima dall’emergenza della pandemia. È nei No vax, piuttosto, che, sentendosi esclusi, vittime di un nuovo totalitarismo politico-sanitario, si trovano espressioni di odio ingiustificato e irrazionale verso tutti coloro che promuovono la campagna vaccinale. Possibile che non provino alcun pudore quando esprimono il loro dissenso facendo ricorso ai simboli dell’Olocausto? Forse i No vax non conoscono abbastanza quel tremendo capitolo della recente storia europea. Possibile che non si rendano conto che questo loro gesto è un affronto verso tutte le vittime e verso gli ultimi superstiti di quella politica razziale? E se scopo di quei cosiddetti infiltrati fosse proprio quello di voler sporcare ancora una volta la memoria e l’immagine di quelle vittime, ebrei e non ebrei? Il sospetto non sarebbe ingiustificato se torniamo emblematicamente con la mente ancora una volta all’uso riprovevole che qualche anno fa (nel novembre 2017) alcuni tifosi di calcio hanno fatto dell’immagine di Anne Frank: gli stadi infatti (ma non solo) sono ormai diventati un po’ dappertutto pericolosi terreni di coltura. Ecco perché l’offesa arrecata alla memoria delle vittime non può provenire che da coloro che irresponsabilmente continuano a supportare la posizione dei carnefici. Ma questo contrasta con la critica che la maggioranza dei No vax rivolge al governo, la cui politica sanitaria, come si è detto, è da essa sentita come una forma attuale di totalitarismo. Perché delle due l’una: o si critica o si ha nostalgia del totalitarismo. Ciò lascia supporre che il movimento No vax sia composto da almeno due anime, le quali utilizzano impudicamente i simboli della Shoah per motivi contrastanti: la prima perché si sente una vittima e quindi accusa il governo di nuovo totalitarismo; la seconda perché può sfruttare questo uso del tutto improprio e indegno per sporcare a suo vantaggio il ricordo delle vittime e per rivalutare di riflesso l’immagine dei carnefici. Ad ogni modo, l’odio che entrambe le anime esprimono non è affatto a somma zero, ma, proprio come temeva Primo Levi, si esalta e talvolta, come nell’opaco episodio dell’assalto alla sede della Cgil, esplode in aperta violenza. Con le loro manifestazioni, insomma, specie con quelle del tutto inopportune nelle quali fanno ricorso ai simboli della deportazione nazista, i No vax vorrebbero dire che si sentono trattati come vittime della dittatura vaccinale, come dei “sommersi” rispetto a tanti “salvati”, e che questi si sarebbero piegati e omologati a quella politica totalitaria. È per tali motivi che essi credono di rappresentare anche una minoranza eroica, capace di resistere al potere che fa leva su una maggioranza prona e accondiscendente.

Una cosa in ultima analisi sembra tuttavia evidente: la benevola propaganda governativa anti-Covid ha creato suo malgrado nel Paese una spaccatura tra la maggioranza dei Sì vax e la minoranza No vax, tra positivisti e negazionisti. Una fenditura certamente nuova dal punto di vista epidemiologico, ma che è servita alla destra facinorosa come ennesima occasione per ritornare a rimestare nella ferita storica, della quale i suoi adepti auspicano non la guarigione, ma la recrudescenza. Il vasto fronte dei primi, sulla scorta delle indicazioni scientifiche, crede che per fronteggiare il Covid-19, oltre al distanziamento fisico, l’unica soluzione praticabile sia il vaccino – anche nella prospettiva di doverne fare annualmente il richiamo, alla stessa stregua del vaccino anti-influenzale (a cui sorprendentemente ricorrono anche molti No vax). I secondi, sulla base di indicazioni che essi reputano altrettanto scientifiche, sono convinti invece che il virus non esista, che sia solo una montatura, un’invenzione (comprese le stesse varianti) approntata ad hoc da potenti case farmaceutiche, dietro le quali (secondo il più classico dei modelli di complottismo) opererebbero forze occulte e poteri oscuri allo scopo di mettere in ginocchio e asservire ad essi il mondo intero. Per queste ragioni, essi ritengono che, pur ammettendo l’esistenza del virus, anche nella sua forma artificiosa o sintetica creata in laboratorio, l’infezione si possa curare con farmaci alternativi al vaccino, con una terapia da seguire comodamente a casa, senza andare necessariamente in ospedale. Ma il loro scetticismo radicale non riguarda solo l’efficienza o la realtà del vaccino. Esso ha di mira anche il numero dei deceduti nella pandemia, perché i No vax credono compatti a un’altra vulgata: sostengono che, tra gli oltre 250 milioni di contagiati nel mondo, molte dei 5 milioni di persone falciate dal virus in meno di due anni sarebbero decedute per altre malattie, solo che, dicono, vengono registrate come morti per Covid. E ciò, ribadiscono, perché si vuole imporre il vaccino, la cui diffusione frutterebbe ingenti guadagni alle multinazionali del farmaco e tanto potere alle forze politiche occulte. Rassicuranti queste teorie dietrologiche, ma è probabile che per essi saranno valide finché il mal’àkh non verrà a bussare anche alla loro porta.

Ivrea, 15 novembre 2021

 

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Anti-illuminismo della destra italiana

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana.

Anti-illuminismo della destra italiana. Liliana Segre con il padre

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana non già e non tanto per se stesse, per quello che sono, cioè come vittime della Shoah, ma per quello che esse rappresentano, ossia per la loro ebraicità.

È questo l’aspetto più inquietante della questione, perché ancora una volta, nonostante la dura lezione del recente passato, si indulge a prendersela non con le persone, con i singoli individui, bensì con la loro presunta razza.

Da questo atteggiamento platealmente razzista, si desume che il fondamento della destra italiana, benché non lo si dica ancora apertamente, è rimasto immodificato: è rimasto cioè nostalgicamente fascista, perché continua ad opporsi a uno dei principi dell’Illuminismo, a uno dei cardini dell’etica kantiana, che dice di

trattare le persone sempre come un fine e mai come un mezzo.

Ebbene, umiliando e sfregiando l’immagine simbolica di quelle due persone, la destra fascista italiana non fa altro che usarla come mezzo per ribadire ancora una volta, dopo quasi un secolo dalla marcia su Roma, che il progetto illuminista e internazionalista, filocomunista e filoebraico, insomma il programma democratico che la sinistra, assieme alle altre forze antifasciste, ha voluto attuare in Italia con la sua bella Costituzione democratica e repubblicana, è e resta un progetto sbagliato.

E ciò, secondo questa destra, esprime un giudizio che, nonostante i contorcimenti istituzionali sempre più difficoltosi e i giochi di palazzo, gli Italiani confermano quasi ad ogni turno elettorale.

Sarebbe pertanto auspicabile e legittimo per questa destra restaurare il progetto antitetico ad esso, ossia quello sovranista e neonazionalista, populista e neofascista, e quindi antidemocratico.

In tutto il mondo, peraltro, a partire dalle vecchie e dalle nuove superpotenze, non mancano i modelli a cui ispirarsi e da cui, sfruttando la naturale dialettica tra esse, ottenere eventuali sostegni concreti.

Ma per tornare al nostro strano Paese, che, da par suo, saprà certo plasmarsi un modello ad esso adeguato, magari sulla falsa riga del suo vecchio prototipo, l’auspicio è che questa nuova e probabile alleanza, questo nuovo asse, al quale orgogliosamente i sovranisti italiani credono di appartenere, non generi gli stessi risultati disastrosi che ha innegabilmente prodotto il precedente asse, sia sul piano militare che su quello economico.

La domanda pertanto è: vogliamo di nuovo diabolicamente ricadere nello stesso errore?

Se la risposta è sì, sappiamo già perlomeno quello che ci attende. Ma se la risposta è no, allora una sola cosa sembra ci resti da fare per salvarci da questa possibile sciagura – Kant, l’illuminista, l’autore del saggio sulla Pace perpetua, il filosofo il cui intero arco di vita è stato contrassegnato da continue guerre, lo sapeva bene: insistere sulla cultura.

Perché solo cittadini privi di memoria storica, di senso critico e di sensibilità possono assecondare propensioni miopi come quella stimolata ad arte dalla solita destra italiana fascista e velleitaria.

Se la nostra risposta è no, allora tra le priorità di governo, crisi o non crisi, ci deve essere assolutamente il sostegno all’istruzione e alla cultura.

Giacché solo la cultura ci può salvare da questo putridume, da questa china arida e scivolosa.

Franco Di Giorgi

1 novembre 2019

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Claudio Vercelli e la storia delle leggi razziali in Italia.
Una storia che parla al presente.

di Franco Di Giorgi

 

Saggio Di Giorgi su 1938 Francamente razzisti
Claudio Vercelli e la storia delle leggi razziali in Italia – completo

1938 Francamente razzisti1. – Con la sua ricostruzione storica delle leggi razziali antiebraiche (1938. Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia, Edizioni del Capricorno, Torino 2018) Claudio Vercelli contribuisce all’assolvimento di un duplice e difficile compito da cui ricercatori da un lato e docenti dall’altro non possono esimersi: quello di confrontarsi con la domanda tanto spontanea e ovvia quanto fondamentale e inaggirabile – perché proprio contro gli Ebrei? – e quello di verificare se o in che misura esistano continuità e riprese nel presente di quell’aberrante evento storico che senza alcun dubbio ha trovato terreno fertile nel nostro Paese ottanta anni fa.

Certo, non solo nel nostro Paese.

Qualche anno prima, infatti, nel 1935 erano state varate le leggi di Norimberga, ma l’Italia rivendicava una prospettiva autonoma in tal senso, a partire perlomeno dalla conquista dell’impero. È quanto afferma peraltro Mussolini nel suo discorso tenuto a Trieste il 18 settembre 1938.

D’altronde è storicamente altrettanto accertato che a fronte di tutto l’ampio corpo della Christenheit europea (per ricordare il titolo di un famoso saggio di Novalis) è proprio nella penisola italiana che si daranno le condizioni politiche (essenzialmente il fascismo) che renderanno possibile il formarsi di una sorta di sarkónphalon, di escrescenza carnosa attorno all’ombelico, le cui metastasi si diffonderanno rapidamente in tutte le parti di quel corpo.

Giusto e doveroso precisare subito che l’uscita di questo libro è avvenuta in coincidenza con una serie di interventi in alcuni licei di Torino e provincia previsti e programmati dallo studioso con il sostegno dell’Associazione comitato Colle del Lys.

E ciò non solo per creare una più stretta collaborazione tra università e scuola secondaria, ma anche per venire incontro agli insegnanti che in questo periodo alquanto caotico e critico vedono diminuire sempre più le ore di didattica della storia.

Non già pertanto l’istituzione scolastica in sé, con il novero dei ministri dell’istruzione ad essa incaricati, almeno in quest’ultimo ventennio, quanto piuttosto gli stessi insegnanti di storia debbono essere riconoscenti e grati per questo supporto ai ricercatori, almeno a quelli impegnati in questo fronte, come lo è certamente il professor Claudio Vercelli.

Ciò premesso, si potrebbe verosimilmente partire da questo dato immediato della realtà scolastica, da questa all’apparenza ‘banale’ decurtazione delle ore di storia nelle scuole superiori italiane per iniziare a ragionare e ad inquadrare la duplice questione storica sopra delineata.

Giacché è del tutto evidente che senza un’adeguata didattica della storia, senza avere cioè il tempo per riflettere adeguatamente sugli eventi storici, i giovani non possono comprendere né il loro presente – così profondamente radicato nel passato, non solo recente – né tanto meno il passato – la cui storia, ammonisce Vercelli, «parla al presente».

Presente nel quale, ribadiva lo stesso storico alla presentazione del suo libro al Polo ‘900, rientrano in gioco «modalità di rapporti» maturati in quel recente passato.

Seguire l’interessante e per certi aspetti sorprendente excursus storico relativo al 1938 – anno di svolta per l’Italia, sebbene un’inclinazione razziale si potesse già registrare sia, poco prima, nella conquista dell’impero, sia, all’inizio degli anni Venti, nell’italianizzazione forzata della Slovenia – consente anzitutto di capire bene le risposte in merito alla prima questione: perché proprio gli Ebrei? Perché delle leggi proprio contro gli Ebrei?

Ma oltre all’insieme delle cause e delle concause che possono spiegare le ragioni di questo strano accanimento contro il popolo ebraico, cause che rimandano alle origini della cultura ebreo-cristiana, lo spessore analitico del testo lascia intendere quanto tempo sia stato necessario per esporre in maniera così sintetica la ricostruzione che esso propone.

Il tempo è infatti un elemento necessario non solo per l’apprendimento delle tematiche storiche, ma anche per la loro necessaria assimilazione, per la loro adeguata e altrettanto imprescindibile comprensione.

Se, per le fin troppo note ragioni di carattere “sistemico”, vale a dire economico-politiche, che si concretano nella proposta didatticamente improponibile (vale a dire indecente per i docenti) dell’Alternanza scuola-lavoro; se per tali urgenze sociali, dunque, viste come la panacea capace di risolvere l’annoso problema della disoccupazione giovanile, il ministero della pubblica istruzione non vede altra soluzione che la riduzione delle ore per la didattica della storia, allora i conti tornano e sono sotto gli occhi assonnati di tutti.

E con i conti vengono al pettine inevitabilmente anche i nodi. A una continua emergenza economica e sociale fa seguito l’emergenza politica, anch’essa annosa per non dire strutturale, ed entrambe si legano e hanno comunque a che fare con l’emergenza scolastica e culturale in senso generale.

A fronte della lentezza con cui si manifestano i processi naturali, biologici e cosmici, la storia recente ci apprende che ogniqualvolta l’uomo imprime arbitrariamente in essi una certa accelerazione ne risulta sempre solo un apparente progresso. Anzi, quasi come una sorta di giusto contrappasso naturale, ne viene fuori una inevitabile regressione, non solo in senso naturale, appunto, ma soprattutto in senso etico e morale.

L’accelerazione, la velocizzazione, la crescente richiesta di performatività cibernetica che, aspirando all’annullamento del tempo, assimila l’uomo alla macchina da esso stesso approntata e programmata, non è solo nemica, diceva già Hegel, della pazienza del concetto, ma produce esiti culturali e avvenimenti storici che restano inspiegabili o quanto meno incomprensibili per l’uomo stesso. Malgrado la drammatica constatazione di simili accadimenti – di cui Auschwitz resta indubbiamente uno dei simboli più eloquenti – nelle istituzioni scolastiche che velleitariamente vivono sotto l’urgenza della velocizzazione (apparato burocratico permettendo), la richiesta della pazienza proveniente dall’essenza stessa delle discipline appare come un insensato e anacronistico elogio della lentezza.

Proprio da questa esigenza sistemica di velocizzazione che, attraverso le virtualità insite potenzialmente nella macchina, tende a fare dell’uomo quell’essere che lo stesso dio ebraico-cristiano ha creato a sua immagine e somiglianza, da questo sogno di una perfetta performatività, grazie alla quale, per parafrasare il titolo di un saggio di John Austin, il dire equivale a un fare e, viceversa, il fare equivale a un dire, ebbene proprio in questo elemento dell’alta velocità che caratterizza nella sostanza la postmodernità, possiamo cogliere il punto in cui si intersecano o il nodo in cui destinalmente si stringono il nostro presente e il recente passato relativo al tempo in cui sono maturate le condizioni per l’attuazione delle leggi razziste.

Quanto alla necessità di ridurre all’osso il tempo per le materie umanistiche, all’impellente esigenza sistemica di dedicare ad esempio alla storia solo lo stretto necessario, ossia quanto basta per conoscere più che altro quella relativa alla propria nazione, privilegiandone infondatamente gli aspetti razziali, interessanti risultano le pagine che Vercelli dedica all’«applicazione concreta delle leggi e l’epurazione antiebraica» (p. 105 e segg.).

L’allora ministro dell’istruzione, Giuseppe Bottai, fu il promotore del «processo di razzizzazione della società», il quale doveva prendere l’avvio ovviamente dalla scuola, nella quale poter cominciare a «istituire percorsi di formazione e studio ispirati alla “scientificità” del razzismo, un po’ in tutte le discipline», mossi in ciò dall’«imperativo di costituire un “uomo nuovo”, pienamente ispirato ai “valori” fascisti».

Non deve peraltro affatto sorprendere, da questa prospettiva, il poter rintracciare la medesima esigenza anti-culturale anche in alcuni passaggi del secondo capitolo del Mein Kampf, dove il futuro Führer, in merito all’istruzione dei giovani, pensava di dare priorità all’educazione fisica (alla boxe, ad esempio) e non alle altre materie, affinché, sulla scorta del Drill, del modello pedagogico prussiano, si rafforzasse in loro lo spirito d’assalto e l’anti-pacifismo, come pure il culto del silenzio e lo spirito della devozione e della fedeltà.

E ciò soprattutto perché, così veniva rimarcato il quel capitolo, se nel 1918 e nel 1921 la Germania è stata piegata, lo si è dovuto al fatto che essa ha formato troppi intellettuali.

Ecco perché bisognava aumentare le ore di ginnastica e ridurre al minino quelle relative a tutte le altre discipline. È legittimo a questo punto ricordare che uno dei tanti motivi che costituiva l’ideologia antiebraica consisteva proprio nelle indubbie qualità intellettuali degli Ebrei, le quali, secondo i nazifascisti giudeofobici, venivano messe al servizio della politica (giudeo-bolscevismo) e della finanza internazionale (demoplutocrazia).

CONTINUA …

17.01.2019