Franco Di Giorgi

Franco Di Giorgi, eminente filosofo e scrittore, ha dedicato la sua carriera alla ricerca di connessioni profonde tra diverse discipline.

Ha spaziato dalla filosofia alla memorialistica, dall’esegesi biblica all’estetica letteraria e musicale.

Franco Di Giorgi scuola e CostituzioneIn qualità di insegnante di Storia e Filosofia, ha lasciato un’impronta duratura nel mondo della scuola.

Di Giorgi si distingue per la sua significativa riflessione sulla Shoah.

In particolare su Primo Levi.

È autore di sette libri.

Nel suo lavoro “Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah” del 2004 e “A scuola di Resistenza” del 2006, esplora la memoria concentrazionaria e resistenziale, offrendo una prospettiva unica e approfondita su uno degli eventi più tragici della storia umana.

La sua versatilità intellettuale si riflette nella sua capacità di connettere la filosofia con la memorialistica, l’esegesi biblica con l’estetica letteraria e musicale.

Inoltre opere come “Giobbe e gli altri” del 2016 e “Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso” del 2018 testimoniano la sua profonda immersione in temi biblici e filosofici.

Oltre alla sua produzione di libri, Di Giorgi ha contribuito a numerose riviste di prestigio, tra cui Testimonianze, Fenomenologia e Società, Nuova Rivista Musicale Italiana e altre, consolidando la sua reputazione come pensatore e saggista di spicco.

La sua influenza si estende anche all’ambito online, dove ha contribuito a riviste come Scenari, Carte di Cinema, volerelaluna.it e SergioDalmasso.com.

Il professor Franco Di Giorgi, con la sua elevata erudizione e la sua dedizione alla comprensione critica della storia e della filosofia, continua a lasciare un’impronta significativa nel panorama accademico e nella riflessione intellettuale contemporanea.

Recentemente ha pubblicato il volume intitolato:

Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi”,  Mimesis Milano, luglio 2023.

Articoli

Franco Di Giorgi

Benigni Sanremo

Benigni Sanremo

PRENDI E LEGGI IL CANTICO DEI CANTICI

Sorprendente e interessante la reazione finale che il pubblico del teatro Ariston di Sanremo ha riservato all’encomio dello shir hashirim, del Cantico dei Cantici che Roberto Benigni ha voluto così benevolmente porgere a tutti gli spettatori del 70° festival della canzone italiana. Perplesse, spiazzate e incredule nell’apprendere da quell’appassionato profluvio di parole che il desiderio amoroso è un sentimento umano che trova stranamente posto in uno shir, in un canto, in un testo poetico (databile tra il VI e il IV secolo a.C.) che gli antichi hanno voluto collocare nel cuore stesso della Bibbia, del libro dei libri, tra il Qohèlet e la Sapienza, ebbene quelle persone, prese da un certo turbamento, sono rimaste inchiodate alle loro comode poltrone, in platea e in galleria, rifiutando quella standing ovation che perlopiù esse riservano ad interpreti che intonano canti dei quali forse non sanno che hanno una delle loro radici proprio in quel cantico biblico. Qui, infatti, si possono rintracciare alcuni di quei paradigmi erotico-letterari presenti anche nella cultura greco-classica e poi in quella ellenistico-alessandrina, archetipi amorosi che dalla poesia trobadorica (il cui tema principale era appunto l’amore), attraverso Dante e Guinizzelli, passeranno al dolce stil novo, e da qui al petrarchismo, al marinismo, al romanticismo, al decadentismo e al modernismo. Eccone alcuni esempi:

«Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe» (Ct 1, 15).

«Come un giglio tra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle» (Ct 2, 2).

«Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore (ki-cholat ’ahavah ’ani» (Ct 2, 5).

«Che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo…» (Ct, 3, 6).

«Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo» (Ct 4, 3). La parola melagrana (rimòn), tra l’altro, anche al plurale (rimonim), ricorre per ben sei volte nel testo, per sottolineare la trasparente bellezza e il sublime valore simbolico di questo frutto.

«Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni!» (Ct 4, 8).

«Tu mi hai rapito il cuore con uno sguardo, con una perla sola della tua collana» (Ct 4, 9).

«Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Ct, 5, 2).

«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti» (Ct 7, 1).

« Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore» (‘azah khamavet ’ahavah, Ct 8, 6). Cioè: l’appartenenza alla morte è simile all’appartenenza all’amore; perché appartenere alla morte è la stessa cosa che appartenere all’amore. L’amore e la morte hanno la stessa forza d’appartenenza, la stessa origine, ricordava il grande Recanatese.

E in questi versi biblici, oltre che l’eco di poeti latini come Catullo e Ovidio, come non sentire anche quella di Dante e di Petrarca, di Novalis e di Goethe, di Leopardi, di Celan, persino quella del bel romanzo di Roberto Cotroneo, L’età perfetta?

Ma com’è possibile, sembrava chiedersi frastornata quella gente variopinta al termine dell’inattesa lettura di alcuni tra i versi più belli del Cantico dei Cantici, com’è possibile che versi di un così intenso e ardente desiderio amoroso siano contenuti nel testo biblico? In un libro che è riservato alle cose sacre, e in cui, presi dall’obbligo divino della moltiplicazione («Siate fecondi e moltiplicatevi», Gn 1, 28), per gli esseri umani non c’è né spazio né tempo per il sentimento? In cui, invece, davvero tanta è la sofferenza che essi debbono patire, anche solo per il semplice intervento illogico e disumano di Yahweh? Possibile che quel testo, che resta quasi sempre nascosto sugli scaffali polverosi delle nostre librerie, contenga quel tesoro, quel bene, quella luce, quell’amore, quel sentimento a noi ormai quasi del tutto ignoto?

Ebbene, nonostante il frastuono dei deboli e imbarazzati applausi, quella lettura di Benigni pareva discendere sugli astanti come uno spirito benefico che sussurrava leggiadro alle loro orecchie assordate: «tolle lege, tolle lege», «prendi, leggi; prendi, leggi».

8 febbraio 2020

cantico dei cantici

Cantico dei cantici Franco Di Giorgi e Roberto Benigni

Indifferenza e individualismo

 

L'Italia tra indifferenza e individualismo

indifferenza e individualismo

L’Italia tra indifferenza e individualismo

di Franco Di Giorgi

Articolo originale: L_Italia tra indifferenza e individualismo

Dalla minuziosa analisi di Franco Astengo delle recenti elezioni regionali risulta che, premiando più Fratelli d’Italia e meno la Lega Nord, soprattutto con il sorprendente calo del Movimento 5 stelle (nonostante la sua lotta per il reddito di cittadinanza, di cui molti italiani poveri hanno potuto usufruire), nell’elettorato, indipendentemente dalla vittoria di Bonaccini come candidato del PD in Emilia Romagna e della Santelli in Calabria come candidata di Forza Italia, si è evidenziata, grazie anche al voto disgiunto, la tendenza al bipolarismo, cioè a votare o a destra o a sinistra e non più tanto i partiti che non vogliono essere né di destra né di sinistra come appunto il M5s, o quelli di destra che cavalcano temi della sinistra, come la Lega.

In tal modo, per la famosa legge dei vasi comunicanti, riequilibrando il sistema in base alla posta in gioco nelle singole regioni, le preferenze ritornano alle loro appartenenze naturali: i voti precedentemente acquisiti dal M5s rifluiscono nel PD e quelli in precedenza conquistati dalla Lega ritornano parte in Forza Italia (in Calabria) e parte in Fratelli d’Italia (in Calabria e in Emilia Romagna).

Ciò premesso, se a due giorni dalla suddetta chiamata alle urne possono da un lato risultare comprensibili le dimissioni di Di Maio come responsabile del M5s, restano invece ancora tutte da capire o perlomeno da spiegare, dall’altro lato, le ragioni dell’affermazione al sud di un partito a naturale vocazione nordista come la Lega Nord, pur nella chiara consapevolezza che la partita per il centro-sinistra non si è affatto conclusa con la conquista dell’Emilia Romagna, giacché ora, o da qui a qualche mese, la posta in gioco si sposterà in altre regioni, soprattutto in Campania.

A tal proposito ancora più importante diventerà il movimento delle Sardine, le quali hanno infatti già dichiarato che orienteranno la loro azione coinvolgente e aggregante verso quella regione, con epicentro a Scampia.

Con questo nuovo riassestamento delle forze politiche a livello regionale, specie dopo il già ricordato risultato deludente dei Pentastellati, non potrà non risentirne anche l’equilibrio interno alla stessa compagine governativa, e quindi, di riflesso, anche l’intero paese.

Giacché proprio ora, nonostante questo parziale sommovimento politico, l’alleanza PD-M5s, sebbene differenti siano per il momento i loro giudizi in generale sull’Europa, deve tuttavia continuare a dare prova di serietà e di responsabilità con quel duro e difficile lavoro che si è impegnata a svolgere per salvare il paese non da una destra liberale e moderata, ma da una destra razzista e da un sovranismo rovinoso.

Certo, l’Italia non è il solo paese europeo a dover affrontare una tale compito, ma è forse uno dei pochi che deve farlo mentre tenta contemporaneamente di superare la crisi economica e mentre è alla ricerca continua di un sistema elettorale ad esso più confacente.

Ne viene fuori, insomma, un paese senza basi economico-politiche stabili e per di più in continua campagna elettorale. Un paese soprattutto senza idee e senza un programma organico per il futuro.

Certamente, a causa dell’ennesima crisi economico-finanziaria generata dal sistema capitalistico, di una crisi che si inanella attraverso guerre opportune con il selvaggio sfruttamento delle risorse e quindi dell’ambiente, nonché con il conseguente fenomeno migratorio, si creano le condizioni di una perfetta tempesta cosmica, per salvarsi dalla quale ogni essere vivente, ammesso che riesca a sopravvivere alle fiamme e alle inondazioni, oppure alle nuove malattie, alla povertà e alla miseria, è costretto a ricorrere al bellum omnium contra omnes, alla guerra di tutti contro tutti, all’homo homini lupus, che sono poi le massime che ritroviamo a fondamento del pensiero delle destre e delle politiche antisocialiste o neoliberiste.

Questo è il tipo di tempesta che esse cercano in tutti i modi di generare o almeno di in-generare, cioè di rappresentare e di offrire attraverso i media alla percezione condizionabile degli individui.

Infatti, malgrado un tale pericolo non si dia che nella percezione, diventa necessario per le destre ridurre il cittadino da essere sociale e politico a individuo isolato, ossia a-sociale e a-politico, in modo tale che esso possa così esperire con timore e tremore tutto il suo isola-mento e quindi tutta la sua debolezza e “prendere per vero” quello che non lo è.

Ma un tale individualismo non può realizzarsi pienamente se non quando diventa sistemico, cioè quando viene reso un fenomeno ideologico, un elemento culturale se non addirittura antropologico, quando viene fatto rientrare capillarmente nel sistema sociale, come status, come mo-dello relazionale indispensabile per il funzionamento di tale sistema.

Allorché, insomma, diventa istintivo e normale che ognuno competa e lotti solo per sé come un lupo, quando per la propria autoconservazione si è disposti a sopraffare gli altri, ecco che allora questo model-lo raggiunge la sua forma civilmente e politicamente accettabile, la quale ha però la sua forma ideale nel “sistema Lager”.

Traslato sul piano nazionale, questo individualismo ha il suo corrispettivo nell’attuale sovranismo o nel neo-nazionalismo, mentre sul piano sociale lo ha nei luoghi sempre più ristretti ed “esclusivi” che rappresentano, secondo il sociologo Alessandro Casiccia, segni di “esclusione” all’interno di società opulente e competitive, «luoghi di opulenza» o «cittadelle del privilegio», come ad esempio il modello Greenwich Village o il downtown, che marcano la loro differenza, la loro distanza dal Bronx, dalle periferie, dalle banlieue.

A ragione oggi, specie nelle ore che scorrono intensamente intorno alla Giornata della Memoria, si continua a ribadire che sia proprio questo individualismo esasperato ad essere alla base del “sistema Lager”, e che esso, questo egoismo, con la sua costitutiva indifferenza, rappresenti il modo più efficace per segnare in profondità le differenze e per evidenziare le discriminazioni. Proprio la senatrice Liliana Segre, questa preziosa testimone della nostra storia, ha sempre voluto evidenziare, e non solo di recente, la pericolosità insita nell’indifferenza.

E a questo riguardo non si può non ritornare sul fatto scandaloso che proprio ad essa, a una ex deportata di Auschwitz, l’Italia, unico paese al mondo, abbia dovuto assegnare una scorta. – Vergogna!

Pur condividendo appieno le ragioni per le quali viene evidenziata e chiamata in causa, la parola indifferenza ci sembra tuttavia troppo astratta, spirituale, culturale, lontana dal suo reale significato, perché si ha come l’impressione che in qualche modo essa ne copra o ne di-storca il senso originario, più materiale e certamente più crudo, che ritroviamo invece nell’individualismo, in quell’atteggiamento che, come abbiamo visto, discende direttamente dall’istinto di autoconservazione e che prelude alla brutale lotta di tutti contro tutti. In altre parole ci pare che l’indifferenza sia un termine che veli quel “meccanismo vittimario” che in La route antique des hommes pervers (1985) René Girard ha saputo cogliere così bene, un di-spositivo, anzi una predisposizione neurologica che purtroppo non si trova già solo nella testa di alcuni individui indifferenti e razzisti, ma in quella di tutti quanti gli uomini, nel cervello dell’anthropos, dell’homo sapiens, compresa quella dell’uomo inteso biblicamente come adamàh, come terra.

Più che opportuna a tal riguardo la scelta di Beppe Casales nel suo spettacolo Nazieuropa, quando si sforza di chiamare le cose con il loro nome, cioè facendo risalire, ad esempio, l’odio razziale non tanto a un portato culturale, quanto piuttosto a una matrice neurologica, dalla quale quel portato discende e si forma.

È proprio per questa inestirpabile radice malefica dell’individualismo, tra l’altro, per questa naturale inclinazione al male che Dio stesso, nel Genesi, ebbe addirittura a pentirsi della sua creatura, vedendosi costretto a disfarsene quasi totalmente e a cancellarne ogni traccia dalla faccia della terra, sperando alla fine nella fede di un solo uomo giusto, in Noè. Ad ogni modo, quel meccanismo di Girard si rimette istintivamente in moto ogni qual volta la storia propone e spinge con violenza sulla sua scena cangiante il bouc émissaire di turno (è il titolo di un’altra opera del 1982 dell’antropologo francese), un nuovo “capro espiatorio”.

In una pagina di Linguaggio e silenzio (1967) di George Steiner, inoltre, abbiamo trovato l’espressione “nodo odioso”, con la quale lo scrittore francese tenta di definire l’ineliminabile connaturalità di un siffatto meccanismo. Si tratta dello stesso “nodo” che angosciò Jaspers quando dovette parlare non solo e non tanto della colpa dei tedeschi, della Germania, ma anche dell’uomo in generale e della colpa metafisica; una colpa che emerse quando, a suo tempo, après coup, après le déluge, il mabul, si poté prendere coscienza del fatto che era stato proprio quel maledetto/benedetto meccanismo a far sì che il capro espiatorio di turno venisse sacrificato senza che nessuno prendesse le sue difese, anche a rischio di essere annientati con lui. Raul Hilberg inquadrava questi colpevoli indifferenti nella categoria dei Bystan-ders, degli “spettatori”.

E risiedeva probabilmente sul suo insistere proprio su un tale “nodo odioso” – visto come un nodo che, specie all’epoca del nazionalsocialismo, stringeva la gola, la mente e il cuore degli europei (nello stesso modo forse in cui nell’Esodo Yahweh stringeva il cuore del faraone) – il motivo che ha deciso nel 2002 l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Imre Kermesse, un altro ex deportato ungherese di Auschwitz e di Buchenwald. Il razzismo nazista, diceva infatti l’autore di Essere e destino (1975), è un prodotto della cultura e della storia dell’Europa.

E in fondo, in ultima analisi, quell’immensa e cupa vergogna che Primo Levi, costretto con molti altri a risiedere su quella soglia tra l’umano e il disumano che ben conosceva Paul Celan, al punto che non sapeva più Primo se questo era un uomo oppure no, ebbene questa tremenda vergogna che egli, per tutti noi, provò dinanzi all’“ultimo” oppositore che pendeva da una forca di Auschwitz («Kamaraden, ich bin der Letzte!»), questa vergogna forse sgorgava non solo da quel “nodo odioso”, ma anche dalla consapevolezza di un irrimediabile falli-mento dello Spirito sulla Materia, dal fatto cioè che proprio quella storia e quella cultura europea che nei secoli erano state sviluppate con il preciso scopo di sottomettere e dunque di educare l’individualismo e l’indifferentismo, alla fine non si erano dimostrate affatto all’altezza di quell’immane compito formativo, educativo, correttivo e pedagogico e che anzi, forse a loro insaputa, li avevano addirittura conservati, alimentati e rafforzati; esattamente come accade con un virus letale, che, nella sua inattesa recrudescenza, rialza la testa quando il corpo umano si indebolisce, geme e piega la schiena.

Torino, 31 gennaio 2020

Anti-illuminismo della destra italiana

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana.

Anti-illuminismo della destra italiana. Liliana Segre con il padre

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana non già e non tanto per se stesse, per quello che sono, cioè come vittime della Shoah, ma per quello che esse rappresentano, ossia per la loro ebraicità.

È questo l’aspetto più inquietante della questione, perché ancora una volta, nonostante la dura lezione del recente passato, si indulge a prendersela non con le persone, con i singoli individui, bensì con la loro presunta razza.

Da questo atteggiamento platealmente razzista, si desume che il fondamento della destra italiana, benché non lo si dica ancora apertamente, è rimasto immodificato: è rimasto cioè nostalgicamente fascista, perché continua ad opporsi a uno dei principi dell’Illuminismo, a uno dei cardini dell’etica kantiana, che dice di

trattare le persone sempre come un fine e mai come un mezzo.

Ebbene, umiliando e sfregiando l’immagine simbolica di quelle due persone, la destra fascista italiana non fa altro che usarla come mezzo per ribadire ancora una volta, dopo quasi un secolo dalla marcia su Roma, che il progetto illuminista e internazionalista, filocomunista e filoebraico, insomma il programma democratico che la sinistra, assieme alle altre forze antifasciste, ha voluto attuare in Italia con la sua bella Costituzione democratica e repubblicana, è e resta un progetto sbagliato.

E ciò, secondo questa destra, esprime un giudizio che, nonostante i contorcimenti istituzionali sempre più difficoltosi e i giochi di palazzo, gli Italiani confermano quasi ad ogni turno elettorale.

Sarebbe pertanto auspicabile e legittimo per questa destra restaurare il progetto antitetico ad esso, ossia quello sovranista e neonazionalista, populista e neofascista, e quindi antidemocratico.

In tutto il mondo, peraltro, a partire dalle vecchie e dalle nuove superpotenze, non mancano i modelli a cui ispirarsi e da cui, sfruttando la naturale dialettica tra esse, ottenere eventuali sostegni concreti.

Ma per tornare al nostro strano Paese, che, da par suo, saprà certo plasmarsi un modello ad esso adeguato, magari sulla falsa riga del suo vecchio prototipo, l’auspicio è che questa nuova e probabile alleanza, questo nuovo asse, al quale orgogliosamente i sovranisti italiani credono di appartenere, non generi gli stessi risultati disastrosi che ha innegabilmente prodotto il precedente asse, sia sul piano militare che su quello economico.

La domanda pertanto è: vogliamo di nuovo diabolicamente ricadere nello stesso errore?

Se la risposta è sì, sappiamo già perlomeno quello che ci attende. Ma se la risposta è no, allora una sola cosa sembra ci resti da fare per salvarci da questa possibile sciagura – Kant, l’illuminista, l’autore del saggio sulla Pace perpetua, il filosofo il cui intero arco di vita è stato contrassegnato da continue guerre, lo sapeva bene: insistere sulla cultura.

Perché solo cittadini privi di memoria storica, di senso critico e di sensibilità possono assecondare propensioni miopi come quella stimolata ad arte dalla solita destra italiana fascista e velleitaria.

Se la nostra risposta è no, allora tra le priorità di governo, crisi o non crisi, ci deve essere assolutamente il sostegno all’istruzione e alla cultura.

Giacché solo la cultura ci può salvare da questo putridume, da questa china arida e scivolosa.

Franco Di Giorgi

1 novembre 2019

Download articolo Anti-Illuminismo della destra italiana:

Download “Anti-Illuminismo della destra italiana (di F. Di Giorgi)”

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Anne Frank

Alberto Cavaglion presenta il libro

“Anne Frank. Diario. Le stesure originali”

Mondadori

Oltre all’autore interviene FRANCO DI GIORGI, già professore di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico “A Gramsci” di Ivrea.

Mondadori Bookstore – Ivrea Freguglia

PIAZZA FREGUGLIA, 13

10015 , IVREA (TO)

Venerdì, 18 Ottobre 2019 ore 21.00 – 23.00

28 marzo 1944. Il governo olandese in esilio lancia via radio un appello ai connazionali perché conservino ogni testimonianza utile a raccontare ciò che sta accadendo nei Paesi Bassi occupati dai nazisti.

Ad ascoltarlo c’è un’adolescente ebrea che vive ad Amsterdam in un nascondiglio.

Da grande vuole fare la giornalista o la scrittrice, e da circa due anni tiene un diario: un testo intimo, destinato solo a sé.

Ma a partire da quel giorno la “bambina di Amsterdam” si dedica consapevolmente a riscrivere il diario, proprio per conferirgli quel valore eterno.

Preziosa fonte storiografica e precoce laboratorio di scrittura, il Diario, nella sua duplice redazione (A e B), mette in luce tutta la valenza umana e letteraria di un «libro composto sul confine dell’abisso».

A partire dal mese di Gennaio 2019, finalmente anche in Italia esce per le edizioni Mondadori la duplice redazione delle stesure originali del Diario, curata e magistralmente introdotta da Alberto Cavaglion.

L’incontro è organizzato in collaborazione con A.N.P.I. IVREA E BASSO CANAVESE

ALBERTO CAVAGLION, Laureatosi in lettere e filosofia all’Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell’Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi.

Studioso dell’ebraismo, insegna all’Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de “L’indice dei libri del mese” e dal 2012 del comitato scientifico dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce (“Nuova Antologia”, n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino : Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l’edizione italiana del Dizionario dell’Olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il Mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il Saggiatore, 2011).

Un cordiale invito a tutti!

Veronica Perego

In foto, Veronica Perego

La malattia di Alzheimer

 

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SALVARE DALL’OBLIO E DALLA MEMORIA

di Franco Di Giorgi

La Malattia di Alzheimer

1  . Una delle categorie kantiane fondamentali della ragione pura è la relazione. E ciò non solo dal punto di vista logico-trascendentale, ma anche da quello ontologico e neurologico. Quando, infatti, nel suo primo saggio, ossia nella sua tesi di laurea (La malattia di Alzheimer: percezione del tempo e memoria. Riflessioni tra neurologia e filosofia, Caosfera 2019), Veronica Perego ribadisce che compito della moderna neurontologia è «rintracciare nell’ontologia cerebrale l’origine delle strutture del pensiero consapevole» (p. 5), con ciò implicitamente intende riprendere la lezione di Aristotele, secondo cui la filosofia è la scienza che ricerca le cause dell’essere. Che cosa vuol dire infatti «rintracciare nell’ontologia cerebrale l’origine delle strutture del pensiero consapevole», se non, appunto, ricercare le cause materiali dell’essere? E l’ontos cerebrale, il cervello, vale a dire, appunto, la materia grigia, è certamente la sostanza in cui è possibile reperire le strutture della mens, della mente, come pure della mnemé, della memoria, e quindi del pensiero consapevole. Una di queste strutture della mens risiede proprio nella categoria kantiana di relazione, la quale, non a caso, corrisponde a una delle dieci categorie aristoteliche alle quali il pensatore di Könisberg ha applicato il suo ordine prussiano. Sicché, pure dal punto di vista neurontologico la relazione si può considerare non solo una condizione trascendentale della possibilità del conoscere, ma anche una condizione fisiologica, se non addirittura istologica di quella medesima possibilità.

Il rapporto fondamentale di causa-effetto, su cui si fonda l’intera impalcatura della logica, della scienza e quindi dell’epistemologia, rientra ovviamente nella categoria di relazione, giacché esiste un legame dialetticamente intrinseco tra i due elementi. Non si può considerare logicamente l’uno senza presuppore neuro-logicamente anche l’altro. E poiché quel legame, quella relazione si produce a livello inconscio, cioè a priori, si può parlare in riferimento a questa categoria di una trascendentalità fisica o fisio-logica. Compito della filosofia sarà di coglierla a livello logico-trascendentale, mentre compito della scienza neurologica sarà di rilevarla a livello fisico-trascendentale o fisio-logica.

Dato, ad esempio, un effetto B, ogni forma di scienza, e quindi la filosofia (che per lo Stagirita è la regina di tutte le scienze), è necessitata a ricercarne il motivo, il motus originario, la causa A. Bisogna dunque risalire da B ad A. Questo movimento del risalimento è anche quello che i neurologi colgono tra le cellule neuronali in presenta di un segnale, di uno stimolo. C’è d’altronde un percorso che questo segnale deve compiere da un punto B (le cellule nervose stimolate in una particolare zona del cervello) a un punto A (il tendine del ginocchio stimolate da un martellino). In quanto elementi a priori, né il percorso compiuto dal segnale né tanto meno la struttura dell’intero sistema nervoso dipendono ovviamente dalla volontà dell’uomo, il quale altro non è, come diceva già Marco Aurelio, che l’insieme, la risultante delle molteplici sinergie relative ai vari sistemi e ai diversi organi che lo costituiscono. La sinergia è quella che si instaura enigmaticamente tra le finalità e le funzionalità sia degli organi sia dei sistemi stessi cui essi mettono capo. Quello che si avverte a livello cerebrale, neuronale o della mens non è altro che la conseguenza, l’effetto di una causa che si verifica a livello fisico o sensoriale. L’intero movimento ha quindi una realtà psico-fisica. E così pure l’essere umano nella sua essenza è inscindibilmente una realtà duale, una realtà psico-fisica.

Ciò significa che questo movimento, questa cor-relazione tra la causa tattile e l’effetto neuronico, avviene in un certo tempo (oggi misurabile grazie a Luigi Galvani, il quale, tra l’altro, comincia i suoi esperimenti con le rane proprio nell’anno in cui esce la prima edizione della Critica della ragion pura, cioè il 1781), determinando così una temporalità, un prima e un dopo. Ma nella Fisica Aristotele aveva già intuito che il tempo, il chrónos, è la misura del movimento secondo il prima e il dopo: una misura, un metrón, che ha la sua condizione nell’anima e quindi nell’intelletto, il quale funziona grazie alle dieci categorie, tra cui, appunto, la relazione, forse la più importante dopo quella di sostanza.

La realtà psico-fisica dell’uomo si evince pertanto anche dal fatto che non si dà misurato – non solo il movimento oggettivo ed esterno, secondo il prima e il poi spaziale, ma anche il movimento interno secondo il prima e il poi temporale – senza misurante – non solo soggettivo ed interno (l’anima), ma anche oggettivo ed esterno (il corpo) – , e reciprocamente non si dà misurante (anima-corpo) senza misurato (movimento esterno e interno, spazio-temporale). Non si dà misura e quindi tempo, senza movimento, cioè distanza spaziale tra causa ed effetto. La memorizzazione psicofisiologica, vale a dire l’apriorizzazione del tutto inconscia e quindi trascendentale di questa durata, crea al contempo un’attesa strutturale.

Sicché, a fronte del dato sensorio in A, mi attendo che, sebbene in un tempo minimo e impercettibile, si verifichi l’avvertimento neuronico, la presa di coscienza in B. Diciamo “si verifichi” non a caso, perché è proprio in virtù di questa attesa minimale e irrilevante che noi avanziamo una qualche pretesa di verità in questo rapporto, in questa relazione temporale e spaziale. Ne viene che vero sarà solo quell’effetto che ha avuto quella precisa causa; vera è l’adaequatio mens et stimulus, la corrispondenza dell’effetto neuronico a quella causa sensoria, alla sua precisa causa. Vista quindi la natura intimamente psico-fisica dell’uomo, non sembrerebbe peraltro corretto parlare di effetto mentale (coscienza del dolore) “distante” dalla causa fisica (dolore fisico), in quanto ogni minima parte del corpo umano è innervato. Eppure una distanza fisico-corporea ad esempio tra il ginocchio e il cervello di fatto esiste, perché è solo qui, nella mens (e non nel sensus) che, sebbene dopo un tempo minimo, cioè al di sotto della soglia di percezione, si prende coscienza del dolore fisico (sensus doloris). Tuttavia è proprio su “esperienze” simili, su “esperienze di soglia” come il sensus doloris che si forma quel sensus communis, cioè il modo di pensare e di conoscere comune, il sentimento naturale.

La patologia dell’Alzheimer è una distorsione del funzionamento di queste strutture del pensiero (tempo, spazio, realtà del mondo); è una particolare forma incurabile di de-menza (mens, mente): una malattia che si presenta propriamente con disturbi della memoria (“tenere a mente”) e di conseguenza di orientamento nel tempo, nello spazio, nel rapporto con la realtà e con gli altri. È una alterazione non solo del Sein, dell’essere, ma anche del Mit-sein, del con-essere, per usare la terminologia heideggeriana fatta propria anche dall’antropologia esistenziale di Ludwig Binswanger.

Una delle principali cause di una tale malattia, secondo gli studiosi, risiede nella placche di una proteina (la beta amiloide) che si formano tra le sinapsi e che bloccano in tal modo il passaggio del segnale nervoso tra una cellula e l’altra. Ancorché dunque a livello cerebrale, la distanza tra B e A, tra causa ed effetto, tra un prima e un dopo, viene in tal modo di fatto annullata e con essa anche il senso della temporalità, della durata e dell’attesa, sicché il paziente sarà costretto a vivere nel presente tutto il passato e forse anche tutto il futuro. Si prefigura così un’esistenza isolata, un isolamento, a causa del quale difficile resta la relazione e la comunicazione con gli altri e con il mondo. Con questi pazienti vi potrà essere soltanto una comunicazione empatica ed emotiva, ma non logica e razionale. Un tale rapporto dovrà pertanto avere come unico fine il riconoscimento dell’esistenza della persona dell’ammalato. «L’esistenza di una persona – scrive infatti l’autrice – sembra essere legittimata solo se l’altro, l’alterità, la riconosce» (p. 120). E, almeno sotto questo aspetto, anche il racconto, la testimonianza di un sopravvissuto alla Vernichtung può essere legittimata solo se chi lo ascolta lo riconosce e vi crede.

2. A causa di questo sfasamento psico-fisiologico, nei malati di Alzheimer accade che il passato venga rivissuto nel presente come se fosse presente. Per essi il passato è il presente e il presente è il passato. A motivo di ciò si verifica in essi uno sdoppiamento dell’io, in quanto pur mantenendo l’io del presente, nel loro dire rievocano e rivivono anche quello del passato, del quale però l’io del presente resta prigioniero. L’io del presente rimane prigioniero dell’io passato. L’io maturo viene piegato dalle istanze dell’io giovanile.

A differenza dello sdoppiamento o della moltiplicazione degli io e quindi delle diverse identità di cui parla tra l’altro anche Proust nella Recherche, qui il soggetto paziente non può più tornare alla coscienza del presente, non può più fare ritorno nella casa del presente, ma resta imprigionato nella casa dell’io del passato. Da qui nasce il senso del suo smarrimento, della sua perdizione. Il suo malessere, inoltre, aumenta ancora di più perché il suo io-presente non riesce a realizzare nel presente quello che desidera il suo io-passato, essendo irrimediabilmente radicato nel suo passato. Egli vive il passato come fosse il presente e non si rende più conto della distanza temporale che esiste tra il passato e il presente. Fonde e confonde passato e presente. Marcel, certo, si mette alla ricerca del tempo perduto, ma poi, alla fine, rientra a casa. A causa di quella proteina, invece, al malato di Alzheimer, pur continuando a vivere nel presente, risulta impossibile riprendere i contatti con il mondo del presente. Egli risiede bensì fisicamente nell’hic, nel qui, ma non vive psichicamente nel nunc, nell’ora, perché il suo ora che vive nel presente appartiene irrimediabilmente al suo passato. O meglio: il malato vive temporalmente un suo ora-presente, nel quale però rivive de-menzialmente il suo ora-passato. Non si tratta pertanto di “nostalgia”, di doloroso desiderio di tornare al proprio passato, alla propria casa d’origine, ma di “topocronopatia”, di distorsione spazio-temporale e quindi anche di disagio esistenziale, quasi mai vissuto consapevolmente.

Oltre che dal modo in cui il passato viene vissuto da Marcel Proust, il rapporto di un malato di Alzheimer con il passato è anche diverso da quello che viene rivissuto da uno scampato alla Shoah. Il disagio vissuto dal malato di Alzheimer nasce dal non poter (se non demenzialmente) compiere nel presente ciò che avrebbe voluto fare in passato; il disagio vissuto da uno sopravvissuto ai Lager nazisti sorge invece dal non voler fare, dal non voler rivivere nel presente il trauma che ha subito in passato. Entrambi sono bensì intrappolati nel proprio passato e assoggettati a una coazione a ripeterlo, ma mentre il malato vorrebbe riviverlo, il sopravvissuto teme di doverlo rivivere. Come un vero e proprio martire, quest’ultimo è per di più lacerato dalla drammatica contraddizione tra il dover ricordare e il voler dimenticare, tra il dover-voler testimoniare e il non poter dimenticare pur volendo dimenticare. Per entrambi è come essere sempre “là”, in quel passato, in quel luogo della memoria, ma mentre in qualche misura il malato è contento di ritornarvi, il superstite, a causa della situazione traumatica subita, entra in angoscia nel momento stesso in cui qualcosa lo rievoca. Non solo: mentre per l’ammalato la memoria e il cosciente recupero della distanziazione e della differenziazione tra presente e passato rappresenta un’ancora di salvezza, perché gli consentirebbero di non venire dimenticato da sé e dagli altri, nel caso dei sopravvissuti è proprio il contrario, giacché la memoria del passato è sempre motivo di perdizione e di dolore. Tutti noi, poi, viviamo nel presente, ma siamo consapevoli della distanza temporale con il passato. Anche il malato di Alzheimer vive nel presente, ma diviene sempre meno consapevole di quella distanza. Insomma, in tutti e tre il passato naturalmente e per qualche motivo tende a ritornare, ma mentre la persona sana riesce a tenerlo in qualche modo razionalmente a distanza (nel senso che può anche rimuoverlo), il malato di Alzheimer, nel quale questa distanza viene meno, non potendolo quindi più rimuovere, lo accoglie inconsapevolmente, invece il sopravvissuto, dissolvendosi anche in lui quella distanza temporale e non potendo quindi nemmeno lui rimuovere quel passato, lo rivive drammaticamente, perché il suo contenuto è doloroso e lacerante.

3. Inoltre, se da un lato alla memoria è necessaria «la distanza temporale e l’equilibrio tra ciò che è ricordato e ciò che viene dimenticato» (p. 105), vale a dire l’equilibrio creato dalla selezione operata dalla memoria sull’intero materiale che essa continuamente immagazzina, all’oblio, dall’altro, è invece essenziale lo squilibrio tra quanto viene ricordato e quanto viene obliato. Perché la parte obliata della nostra vita è incomparabilmente maggiore di quella ricordata. E, per fortuna, di questo nostro singolare modo di essere umani, direbbe Nietzsche, siamo consapevoli solo rare volte, ma quando si verifica ci è davvero spaventoso, perché la memoria della nostra esistenza si riduce veramente a ben poca cosa, a pochissimi frammenti sfocati. Per nostra fortuna, infatti, non siamo come Ireneo Funes, perché possiamo ricordare solo qualche brandello distorto e fugace della nostra breve o lunga esistenza. L’uomo infatti può conoscere se stesso solo dalla minima parte, da quei pochi residui che permangono dei suoi ricordi, in virtù di quella selezione. Senza una tale selezione, e quindi senza il necessario oblio, non ci può pertanto essere conoscenza di sé. Ecco perché i vecchi saggi sentenziavano che “è difficile conoscere se stessi”.

Di noi stessi conosciamo solo una minima parte: quella che, diceva Proust, viene salvata dalla memoria volontaria. In continuità con la psicanalisi freudiana, lo scrittore francese aveva cercato di aumentare la conoscenza dell’uomo provando ad indagare letterariamente anche tutto quel temps perdu, tutti quei mille éléments de tendresse a lui stesso ignoti, insomma tutta quella parte maggioritaria di elementi che la mente vigile ha scartato e che la memoria involontaria ha conservato nel deposito senza fondo dell’inconscio. Di noi stessi, quindi, conosciamo soltanto una minima parte, e ciò nello stesso senso in cui sappiamo solo una esigua parte sia delle potenzialità del nostro cervello sia dell’intero cosmo. D’altra parte è altrettanto vero che sia l’abuso della memoria sia l’abuso dell’oblio, vale a dire sia l’avvicinamento continuo e l’allontanamento dall’evento del passato, inconsapevolmente o meno, producono la dissoluzione e la vanificazione del ricordo.

Ma è la selettività operata dalla memoria a delineare la personalità (p. 113) o è invece la personalità, la particolare sensibilità delle persone, ad attivare la selezione nella memoria? Giacché si può ipotizzare che sia proprio l’inconscio dell’individuo a stimolare la selettività della memoria. Si tratta forse di una scelta inconscia che determina una selezione inconscia nella memoria. Le parti da ricordare e quelle da eliminare vengono decise a livello inconscio. Nulla di volontario, in ogni caso. Sicché, se le cause della rievocazione dei ricordi possono essere conosciute, certamente quelle che determinano la selezione mnemonica restano del tutto inconsce e quindi ignote.

Pertanto, l’aver indugiato così a lungo sulla natura fisica e filosofica del tempo, specie nei capitoli centrali del saggio, non è stato affatto vano, perché è servito a ribadire e a farci capire meglio la relazione filosoficamente ed esistenzialmente assai rilevante e significativa tra il tempo e il modo in cui esso viene percepito non solo dai malati di Alzheimer sia, ma anche, proprio in virtù di questa malattia, dall’uomo in generale.

19 settembre 2019

Italia

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L’Italia tra continuità e discontinuità

di Franco Di Giorgi

Tutte le forze politiche italiane in campo oggi sostengono a viva voce che vogliono salvare il Paese dalla grave malattia che da troppi anni l’affligge e dalla quale non riesce a riaversi completamente.

Quelle forze sono tante quante sono le diagnosi e le relative cure.

Sta di fatto, però, che il malessere permane e nessuna di queste terapie si è dimostrata finora all’altezza della situazione, cioè adeguata ed efficace.

Il rischio di questa specie di accanimento terapeutico è di perdere definitivamente il Paese, paziente e confuso.

Troppe volte si è infatti indugiato irresponsabilmente attorno ai pilastri della Costituzione e ogni volta l’Italia tutta tremava nel temere che potesse verificarsi l’irreparabile.

Il fatto è che alle ultime e alla nuova generazione di politici è mancato e manca il senso della vera responsabilità, quella a cui essi stessi si appellavano al recente impegno elettorale: a quelle mancava perché volevano salvare il Paese sulla base del principio liberista “arricchitevi a tutti i costi”, pur non avendone le reali possibilità; a questa manca perché a tutti i costi vuole riparare i danni commessi da quegli altri, senza avere l’effettiva competenza politica.

Il risultato, che resta sotto gli occhi stupefatti di tutti, è che le condizioni del paziente, del Paese ammalato, si sono andate ulteriormente aggravando, non solo in termini di debito pubblico.

L’unica possibilità per salvarlo, si può ben dire l’ultima ratio, l’ultima chance, pare essere ora un consulto incrociato, una collaborazione terapeutica tra i medici: così infatti oggi sono percepiti i politici italiani, cioè come dei primari, ognuno dei quali ritiene di avere in tasca la terapia salvifica.

Solo che alla luce della realtà patologica ognuna di esse, malgrado le prime avvisaglie, si dimostra alla lunga insufficiente e infine peggiorativa.

Come al solito, tuttavia, anziché operare in maniera coordinata e collaborativa, si crea quello spirito competitivo che purtroppo ci appartiene, simile ad esempio a quello che prevalse tra i generali durante la prima guerra mondiale, il quale finì con il creare la disfatta.

Non siamo tuttavia a una nuova “Caporetto”, vale a dire nel nostro caso a un ‘auto-Caporetto”, ma poco ci manca.

A fronte dello stato semi-comatoso in cui purtroppo ci troviamo, alla paziente Italia non possono pertanto che far male i toni da ultimatum che qualcuno dei nuovi dottorini adotta.

Nel caso specifico si tratta peraltro di quello stesso medicuzzo che poco più di un anno e mezzo fa aveva addirittura avanzato l’idea di impeachment.

E, alla luce di quanto assistiamo, risulta del tutto evidente che così facendo si è perso solo del tempo prezioso, perché la formula chimica, il farmaco, la mistione, insomma l’alleanza che in questi giorni è stata proposta doveva già essere avanzata dopo l’esito del 4 marzo dell’anno scorso.

Allora questa formula venne scartata a causa della testardaggine di un altro medicuzzo livoroso, per via del rancore che ancora lo avvelenava dopo la sonora bocciatura a un esame referendario.

Il rischio è che tra i due litiganti possa goderne alla fine il terzo escluso, il quale pensava di proporre per il Paese la sua ricetta sovranista, e che ora si sta preparando da par suo a manifestare pubblicamente il suo netto dissenso a quella alleanza.

Tutto ciò per dire che in questa sterile e dannosa disputa tra continuità e discontinuità, il Paese corre davvero il rischio di rimanere pietrificato dalla sua cronica malattia, la quale si manifesta certo con la crisi della rappresentanza parlamentare, ma solo perché ha la sua infezione originaria nel generale e incontenibile desiderio di fascismo.

1 settembre 2019

Marcello Martini

In memoria di Marcello Martini

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In memoria di Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 14 agosto si è spento a Castellamonte Marcello Martini, uno degli ultimi martiri e testimoni della Shoah, uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio razionalmente programmato dal nazismo.

Nato 89 anni fa a Prato, figlio di un partigiano e staffetta partigiana egli stesso già all’età di 14 anni, venne catturato il 9 giugno del 1944 (era nato nel 1930).

Dapprima trasportato nel campo di smistamento italiano di Fossoli (vicino a Carpi), poi deportato in Austria, a Mauthausen (immatricolato col numero 76430), assegnato ai sotto-campi di Wiener Neustadt e di Hinterbrühl (nei dintorni di Vienna), conobbe e superò la terribile prova della marcia della morte (250 km in 7 giorni) e fu infine liberato dalle truppe americane il 5 maggio 1945.

La sua testimonianza si trova raccolta in Un adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007).

Tre mesi fa, in occasione dell’incontro per la cittadinanza onoraria che l’amministrazione dello stesso comune canavesano di Castellamonte (nel quale risiedeva da circa cinquant’anni) ha voluto conferirgli (cfr. il nostro articolo: https://www.sergiodalmasso.com/09/05/2019/cittadinanza-onoraria-martini/), dopo aver avvertito i numerosi giovani (sempre presenti alle sue testimonianze) della pericolosità insita nell’indifferenza, ha aggiunto con un mezzo sorriso che avrebbe voluto cancellare dal vocabolario almeno tre parole: odio, violenza e vendetta.

Dopo l’esperienza disumana dell’annientamento progettato vissuta nei campi di lavoro, di concentramento e di sterminio nazisti ogni scampato a quel programma nutriva nel proprio animo offeso l’intenzione di abolire alcune parole nelle quali credeva si potessero individuare e sintetizzare le cause di quel male assoluto.

Anche per un’altra testimone, per Liana Millu (deportata ad Auschwitz), ad esempio, le parole erano tre: l’indifferenza, la violenza e il disprezzo.

«Oggi – ammoniva qualche anno prima della sua scomparsa, nel 2005 – sono rimasti l’indifferenza, la violenza e il disprezzo. E in mezzo a questo mondo terribile cresce la nostra gioventù.

Io oggi posso dire di avere l’autorità e il diritto di parlare dell’indifferenza, della violenza e del disprezzo, poiché ho visto tutto questo e pertanto metto in guardia perché, di nuovo, noi oggi vi acconsentiamo».

«Non si tratta di parlare di storia – ammoniva Liana, cogliendo l’essenza del nostro squallido presente –, quanto piuttosto di indicare cosa di essa è rimasto e ciò contro cui noi oggi dobbiamo ancora lottare».

Come si vede, ricorrono le stesse parole sia in Marcello sia in Liana.

L’odio è un sinonimo di disprezzo. Per quanto riguarda la vendetta, anche Liana (in un’intervista alla Rai del 2003 ma registrata nel 2002) ad essa preferiva la giustizia dagli occhi freddi.

Si deve purtroppo constatare che, anche facendo a meno delle parole che le designano, la violenza, l’odio, la vendetta e l’indifferenza restano inclinazioni costitutive dell’uomo, e non c’è testimonianza culturale, religiosa, letteraria, storica o politica che non lo sottolinei ogni volta, in ogni epoca, seppur in modalità differenti.

Tutti abbiamo appreso, a scuola e nella nostra stessa esperienza di vita, che, diceva Hegel, il Negativo è il motore della storia, intesa sia in senso fattuale e storiografico sia in senso artistico e immaginario.

Non ci sarebbe storia biblica senza il dubbio e il peccato di Adamo, l’odio di Caino e soprattutto senza la vendetta di Dio stesso.

Né ci sarebbe stato cristianesimo senza l’atto empio della crocifissione, nessun libero culto senza le guerre di religione, alcuna acquisizione dei diritti umani senza le rivoluzioni e le guerre mondiali. Impastata d’odio e di vendetta, la violenza è dunque il substrato della storia umana.

L’istinto ferino dell’«animale politico» è anteriore, predomina e condiziona la ragione e quindi l’etica; nello stesso e identico modo in cui l’inconscio, l’irrazionale, precede il conscio e il razionale. Anche questo, specialmente dopo Freud, è ormai un dato acquisito. Yahweh, tra l’altro, crea prima gli animali (e quindi il serpente) e poi l’uomo.

Il dominio umano su di essi è solo nominale, anche perché per esercitarlo deve eccitare la propria animalità.

A fare da cornice a tutto ciò è l’indifferenza di coloro che, per timore di essere stritolati da questa costitutiva mostruosità umana, si fanno da parte, assumendo in tal modo il ruolo di semplici spettatori, preferendo continuare la loro vita quotidiana anche nei pressi del luogo in cui si consuma la violenza, il sacrificio, l’olocausto o la stessa Vernichtung.

A tal riguardo, a proposito del campo di Mauthausen, si veda Gordon J. Horwitz, All’ombra della morte.

La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen (Marsilio, 2004, 1994).

Poiché, però, la tendenza della ragione, specie nella sua declinazione positivistica, vale a dire nella sua illimitata volontà di potenza, è, dice Hermann Broch, di tendere o di estendere all’infinito le sue possibilità conoscitive, divenendo in tal modo «ultrarazionale», finisce viceversa con l’auto-abolirsi come ragione e quindi con il convertirsi «nell’irrazionale, nel non-più-intelligibile» (I sonnambuli, Einaudi, 1997, 19601, III, p. 685).

L’unico rimedio per non far cadere la ragione nell’irrazionale sarebbe pertanto quello di evitare questo suo trascendimento nell’ultrarazionale, il quale non corrisponde affatto all’idea del sonno della ragione.

Ma l’attuale rivoluzione tecnologica, a cui volenti o nolenti partecipiamo, a cosa tende se non proprio all’ultrarazionale?

E questo, implicando e coincidendo con l’auto-abolizione della ragione, non ci riapre forse, come è sempre accaduto, la via verso l’irrazionale e l’inintelligibile, verso una nuova “morte di Dio”?

A che cosa, se non a questo irrazionale proprio della violenza diede vita ad esempio la spinta ultrarazionalista, cioè universalista e imperialista, della ragione al tempo delle crociate, delle conquiste dei nuovi continenti, dell’imperialismo colonialistico, dei totalitarismi?

Se quindi, come in un ciclo sovrarazionale, è di nuovo l’irrazionalità della violenza e dell’odio quella che ci attende con l’ultrarazionalità in corso, ben vengano i calorosi moniti dei due sopravvissuti allo sterminio pianificato, consapevoli però che sarà ben difficile eliminare sia i nomi di quegli impulsi umani sia a maggior ragione quegli stessi istinti ferali.

I fatti di questi giorni, divenuti ormai fatti di semplice cronaca, la fredda indifferenza nei confronti di esseri umani considerati solo come scarti o rifiuti, ne sono l’amara conferma.

Pur manifestando il vivo desiderio di disfarsi di quei sostantivi, il vago sorriso con cui sia Marcello che Liana accompagnavano le loro testimonianze era forse segno di quella difficoltà.

Lunedì, 19 agosto 2019

Infedeltà

icona pdfGIURAMENTO DI INFEDELTÀ ALLA COSTITUZIONE

di Franco Di Giorgi

FRANCO DI GIORGI

Alla luce della fiducia posta dal Senato al governo sul decreto ‘sicurezza bis’ (con 160 voti favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti), sarebbe stata del tutto inutile la proposta che i padri costituenti avevano avanzato (e poi definitivamente cassato) in merito all’estensione del giuramento di fedeltà alla Costituzione anche ai deputati della Repubblica.

Alla fine si decise infatti che “I deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano con la proclamazione immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni.

Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

A questo giuramento rimasero invece vincolati il capo dello Stato, i membri del governo, i magistrati e le forze armate. Ecco la formula protocollare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.

Ora, è del tutto evidente (tranne a quelli che non la conoscono e non l’hanno mai letta – ma, nel caso in specie, anche a quei ministri e a quei deputati che su di essa hanno solennemente giurato) che quel decreto (approvato dal Consiglio dei ministri a giugno e dalla Camera a luglio) non è affatto fedele alla Costituzione, poiché viola manifestamente almeno l’articolo 10, il quale al terzo comma suona: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Un decreto che, sul classico modello della carota e del bastone, serve solo ad alimentare e in parte anche ad appagare l’inestinguibile sete d’odio che aumenta nella maggioranza delle persone con il delinearsi sempre più netto e sconfortante del dissesto economico, sociale e politico del Paese; un decreto pertanto che sa solo parlare alla pancia degli Italiani, sempre tanto desiderosi di un uomo (e mai di una donna, almeno in questo senso) che, in qualsiasi modo, sappia assicurare loro, come un buon padre, il cibo. Un alimento, a proposito di pancia, che ha la medesima ingannevole consistenza di quello che ogni giorno viene ammannito sulla mangiatoia virtuale dalle televisioni.

Un provvedimento, pertanto, non solo illegale (non sono bastati due mesi alla Corte costituzionale per rilevarne l’illegittimità?), ma anche immorale, perché del tutto contrario al principio etico della solidarietà cui si ispira sia quell’articolo sia tutta quanta la nostra Carta costituzionale, la quale da questo punto di vista si può considerare un vero e proprio trattato di etica – così, cioè come un articolato di valori etici universali e sovrastorici, essa dovrebbe essere studiata nelle scuole.

Un provvedimento inoltre del tutto inutile, perché non risolve affatto il problema degli sbarchi (tra l’altro in diminuzione proprio in questi mesi), e utile solo come pretesto per dimostrare quanta parziale e limitata verità vi sia nell’idea dei partiti di governo.

Ma proprio in tal modo gli esponenti al governo di questi partiti derogano e hanno derogato sia al testo del giuramento di insediamento sia al comma dell’articolo 10, perché se da un lato svolgono solo in apparenza le loro funzioni “nell’interesse esclusivo della Nazione”, dall’altro anziché creare le condizioni per la realizzazione della legge enunciata da quell’articolo ne creano viceversa delle altre che rendono impossibile l’espressione dello spirito solidaristico.

La questione dei migranti, poi, per l’Italia è del tutto relativa se si pensa che nel 2018, secondo i dati dell’Unhcr, vi sono sbarcate un po’ più di 23 mila persone (il nostro ministro in una lettera a Giuseppe Conte vi fa cenno in termini di “soggetti irregolari presenti nel territorio nazionale”), mentre in Grecia le persone salvate sono state 33 mila e in Spagna 64 mila.

Paesi che, come si sa, si trovano in una situazione economica non certo migliore della nostra.

In ogni caso, lo stupore rispetto a quel decreto nasce più che altro dal fatto che nessun organo dello Stato abbia saputo constatarne tempestivamente l’illegittimità, abbia saputo in altri termini ravvisare ed eventualmente sanzionare in maniera efficace ed esemplare, nelle forme consentite dalla legge, la conclamata infedeltà di ministri e deputati alla Costituzione.

Una di queste forme, anzi la forma etica per eccellenza prevista per questa legge è contenuta nell’articolo 54, al cui spirito etico si ispira esplicitamente il testo del giuramento al momento dell’insediamento, e nel quale si dice in maniera limpida: “Tutti i cittadini [oprattutto coloro che, in quanto ‘eletti’ dovranno esserlo in modo ‘esemplare’] hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini [si ribadisce infatti nel secondo comma] cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (i corsivi sono nostri).

All’interno di uno Stato laico e repubblicano un siffatto giuramento (jus), ossia un tale senso della justitia, non può che fondarsi dunque sul dovere richiamato in questo articolo, dovere che obbliga a una fedeltà alle leggi previste dalla Costituzione e non a quelle divine che discenderebbero dalla Beata Vergine Maria (spesso evocata dal nostro ministro per rafforzare i suoi interventi e per far breccia nell’animo dei suoi fedeli).

L’assenza di decise reazioni istituzionali di fronte a questo molteplice e sfrontato atto di infedeltà costituzionale genera un vuoto surreale che amplifica l’eco di quelle evocazioni.

Ebbene, quando si tradisce la Costituzione fino a questo punto – in quel decreto si legge ad esempio che dovrà essere punito non colui che si astiene ma colui che si impegna a salvare la vita altrui – allora sì, non si può che dar ragione al presidente di Magistratura democratica, Riccardo De Vito, il quale avverte che in tal modo si ripropone, sebbene con procedure differenti, la medesima antilogica che vigeva nei Lager, in cui il mondo, come testimonia Levi, girava ‘alla rovescia’; non si può non condividere inoltre la convinzione della presidente dell’Anpi nazionale, Carla Nespolo, secondo la quale, così facendo, con quel decreto non solo si disattende il dettato costituzionale, ma viene altresì svuotato il significato della democrazia, che ha nell’eguaglianza uno dei diritti umani fondamentali.

Rispetto a ciò, ogni minimo allontanamento da questo valore prelude a una simmetrica approssimazione al razzismo, anche quando questo si presenta nella sua declinazione suprematista. “Quando si tradisce la Costituzione – afferma in particolare la presidente Nespolo – è il momento della Resistenza”.

Anche perché, come un buon nazionalsuprematista, il ministro degli Interni (che non è ancora premier, ma così lo vedono e lo chiamano già alcuni network amici) si serve dei suoi collaboratori (come ad esempio la sindaca di Monfalcone) per mettere il bavaglio a giornali (quali Manifesto e Avvenire) e a riviste (come Civiltà cattolica) che si mostrano restii ai suoi diktat e ai sui sermoni, spesso corredati da rosari e da vangeli, e fatti di battute sarcastiche tanto care alle masse sempre così bramose di divertente semplicità.

Già, di nuovo è il momento della Resistenza.

Perché l’Italia è un Paese in cui la Resistenza non si è mai potuta considerare un capitolo chiuso della storia.

Un Paese in cui alla guerra civile degli anni ‘40 è stata opportunamente applicata la sordina.

Nonostante la memoria storica e l’esperienza acquisita in passato (la storia per gli Italiani non è mai stata maestra di vita), incapaci di migliorare se stessi, sempre suscettibili di un odio vivo, preda di uno schietto entusiasmo per la violenza contro l’altro, contro lo straniero, contro il diverso, essi vivono nella costante attesa di un uomo, di un ‘duce’ scriveva già agli inizi degli anni Trenta Hermann Broch nei suoi Sonnambuli, anche solo di un ‘capitano’, che possa fungere in qualche modo da motivazione, ma anche da comoda giustificazione per possibili azioni che, “senza di lui”, sottolinea lo scrittore austriaco (che ha conosciuto la realtà del carcere nazista), risulterebbero senz’altro folli.

In tal senso non ha tutti i torti Rino Formica quando, a fronte dell’attuale “decomposizione” delle istituzioni italiane, del “deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura”, in una recente intervista asserisce che “si sta creando il clima degli anni ‘30 intorno a Mussolini” (manifesto 8/8).

Ma come organizzare questa Resistenza, senza far cadere i manifestanti nelle trappole dissuasive preparate ad hoc dal ministero degli Interni con quel decreto?

Questo il compito che attende i movimenti di opposizione democratica nei prossimi giorni.

Due comunque sembrano essere le strategie per affrontare questo nuovo pericolo per la democrazia e per la Costituzione.

Una è quella che sollecita una nuova politica ‘frontista’, cioè quella che, ispirandosi allo spirito della Resistenza, pone come obiettivo primario la nascita di un fronte comune della sinistra: una sorta di “fronte umanitario” che, davanti a questa emergenza delle nuove destre, sappia riunire i partiti della sinistra o del centro-sinistra mettendo da parte le asfittiche differenze.

L’altra è quella che si pone come meta la rifondazione di un nuovo e più moderno soggetto politico che, pur non disdegnando i valori della tradizione della sinistra, sappia confrontarsi con i problemi posti dalla realtà digitalizzata e globalizzata, in cui quel pericolo si radica e si sviluppa.

Considerato il convulso precipitare degli avvenimenti, la prima auspica di raggiungere il proprio obiettivo nel breve e nel medio tempo; la seconda, con l’elaborazione di un nuovo progetto politico, prevede naturalmente tempi più lunghi.

Le due strategie sono poi reciprocamente critiche, perché mentre l’una, avendo a che fare con l’immediato e con le emergenze incalzanti del presente, non ha certo tempo da perdere nelle lunghe ed estenuanti analisi, in cui alla sinistra piace cullarsi, l’altra sottolinea il fatto che ogni tentativo di un mero assemblaggio delle forze è immancabilmente destinato al fallimento.

Per quanto metodologicamente opposte e sebbene ideologicamente convergenti, tutte e due le posizioni contengono elementi di verità.

Vero è che il pericolo è immediato e che la pianta andrebbe recisa prima del suo abbarbicarsi; ma è altrettanto vero che il problema può essere affrontato alla radice non politicamente ma culturalmente, cioè invitando gli Italiani, non solo i giovani, a studiare meno cucina e più etica, a partire soprattutto dalla lettura della Costituzione.

Perché solo così essi, non solo i cittadini comuni, ma anche quelli che essi eleggono al governo del Paese, potranno apprendere il valore etico del giuramento davanti alla Costituzione e capire cosa vuol dire, quali oneri comporta adempiere una funzione pubblica con disciplina ed onore.

Suvvia, dunque, ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni, anche sull’esempio dei rilievi posti al decreto dal presidente della Repubblica, dia il proprio contributo in questo compito indifferibile, in questo nuovo progetto per un’Italia migliore.

Giuriamolo dinanzi alla Costituzione!

Venerdì, 9 agosto 2019

Sinistra

FERRARIS, DE MONTICELLI E LA CRISI DELLA SINISTRA

 

                      di Franco Di Giorgi

 

La «razionalità ambivalente del progresso (..) soddisfa nel mentre esercita il suo potere repressivo, e reprime nel mentre soddisfa» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 130).

 

1. – Per uscire dalla crisi in cui oggi si ritrova, la sinistra, secondo Maurizio Ferraris, non dovrebbe più tanto occuparsi della «socializzazione del plusvalore del capitale industriale» – questo compito, secondo l’ontologista torinese, essa lo avrebbe già pienamente assolto nel ventesimo secolo –, quanto piuttosto impegnarsi a socializzare il «plusvalore del capitale documediale», ossia quello cui mettono capo i Big Data, vale a dire quelli che rilasciamo (consapevolmente o no) ogni volta che ci colleghiamo al web o usiamo lo smartphone (cfr. il manifesto 19/4).

Non si pensi però che la differenza “industriale-documediale” corrisponda al rapporto “materiale-immateriale”, perché l’epoca della documedialità – ossia l’epoca «che ha reso possibile la postverità» e in cui la documedialità consiste nell’«unione tra la forza normativa dei documenti e la pervasività dei media nell’epoca del web» – non è affatto “liquida” come supponeva Bauman, ma «è al contrario», scrive il filosofo nel suo ultimo saggio, «l’epoca più granitica della storia, anche quando il granito prende la forma, apparentemente più lieve, del silicio» (Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna 2017, pp. 13, 100).

Né d’altronde tale differenza epocale (produzione industriale-produzione documediale) si potrebbe far corrispondere al rapporto “reale-virtuale”, giacché il “virtuale”, da questa prospettiva ontologica “neorealista”, ha acquisito pienamente il valore di “reale” e quindi, in stretto senso hegeliano, anche di razionale.

Con la proposta di un neorealismo filosofico, pertanto, lo studioso non intende affatto prendere le distanze dal materialismo tout court: intende solo prendere congedo dal materialismo industriale e tentare di comprendere il nuovo realismo documediale, che ha il suo ontos on, la sua cosa in sé, il nocciolo duro e inemendabile nel silicio.

Con la sua proposta neo-modernista e post-industriale egli vuole dunque contrapporre la sua ontologia realista e documediale all’ontologia irrealista ed ermeneutica che caratterizzava il postmodernismo nell’era ancora industriale. Cerca insomma di confutare, ribaltare e modificare l’assioma nietzscheano “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” con “non ci sono interpretazioni ma solo fatti”.

Una tale proposta critica viene inoltre avanzata sulla base di una semplice percezione, secondo cui i lavoratori, intesi come produttori industriali «sono una minoranza in via di estinzione», così come lo sono la fabbrica e il lavoro inteso come attività produttiva industriale.

Si tratterebbe tuttavia di vedere fino a che punto tale constatazione sia attendibile, giacché lo studioso riporta solo tre esempi di lavoratori manuali: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon; i quali, s’affretta a concludere, svolgono un lavoro che ben presto verrà svolto dai droni.

D’altro canto, secondo certi guru creativi della comunicazione come Mooly Eden, anche l’istruzione già oggi sembra essere rimasta al Medioevo a fronte delle ignote new frontiers che le nuove tecnologie spalancano per il futuro (La Stampa 17/7).

Ma se, appunto, ci atteniamo alla realtà dei fatti, ai fatti nudi e crudi, se guardiamo cioè all’oggi del nostro Paese, ci accorgiamo che – almeno, secondo il parere di alcuni studiosi – la sinistra è in crisi proprio perché è stata troppo attenta alla realtà documediale, perché ha trascurato la realtà industriale, è stata troppo incline alla finanziarizzazione del lavoro e non al lavoro in cerca di solidi finanziamenti. Se proviamo ancora a calarci nelle “tiepide” acque di quella cruda realtà, ci avvediamo con sorpresa che i lavoratori esistono ancora, e come!

Così come esistono le industrie.

Il faticoso lavoro dei sindacati è quello di attestarne l’esistenza appellandosi a uno Statuto che la sinistra cool e digitalizzata (la sinistra del modello blairiano) si è premurata irresponsabilmente di archiviare, proprio per sostenere quella digitalizzazione e quella finanziarizzazione.

A creare disoccupazione e a determinare la chiusura delle fabbriche non è poi soltanto la digitalizzazione documediale e l’automazione in generale, ma anche, come si vede ogni giorno che passa, la più rude e selvaggia delocalizzazione (si pensi solo, fra gli ultimi casi, alla Pernigotti di Novi Ligure).

A partire dagli anni ’90, proprio con le politiche ispirate alla deregulation, il concetto di operaio e l’idea stessa di fabbrica sono stati brutalmente raschiati non solo dal vocabolario della destra, ma anche sorprendentemente in quello della sinistra.

E questa sistematica abrasione ha finito con il creare quel terreno comune, traballante e insidioso, in cui cominciò a dissolversi ogni differenza tra destra e sinistra.

Dopo l’89 (con crollo del muro di Berlino) e il 1991 (con la svolta della Bolognina), il saggio di Bobbio su Destra e sinistra, che è del 1994, scorgeva ancora nel valore dell’eguaglianza la «stella polare» della sinistra.

Ma intanto durante il faccia a faccia tra Prodi e Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 2006 si erano potute vedere in tutta la disarmante evidenza (specie nel candidato del centro-sinistra) gli effetti deleteri di quella abrasione concettuale.

Ora, mentre per Ferraris, come si è detto, la sinistra nel ventesimo secolo ha già assolto con successo i suoi compiti, per Bobbio, essa, specie sul fronte dell’eguaglianza, «non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena iniziato» (Destra e sinistra, Donzelli 1994, p. 86).

E ciò, alla luce delle attuali problematiche sociali e migratorie, non può che essere vero.

Così come non può che risultare vero anche alla luce dell’idea di Ricoeur, secondo cui occorre compiere l’incompiuto della storia, facendo non storia, ma la storia, idea che ha sviluppato in un intervento del 1994 (L’Europa e la sua memoria) e che rielaborerà successivamente anche in un più ampio saggio, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, del 1998.

Ci sembra di capire, insomma, da quanto scrive Ferraris, che se la sinistra vuole recuperare il consenso perduto in questi anni, anche nelle regioni cosiddette “rosse” a favore della Lega, dovrebbe smettere di criticare l’alienazione sociale (che, per quanto detto, non avrebbe più ragion d’essere) e farsi apertamente, ossia realisticamente sostenitrice del più cieco consumismo.

Un consenso che la politica neoliberista ha spostato a destra e del quale si tratta, appunto, di comprendere bene le cause di siffatto spostamento, tra le quali compare certamente quella relativa all’allontanamento della sinistra dal suo terreno naturale, cioè dai lavoratori, dal lavoro umano e materiale.

Giacché ciò che, nonostante tutto, deve continuare a contraddistinguere la sinistra è la tutela del lavoro e dei lavoratori soprattutto in epoche di profonde trasformazioni dell’attività produttiva, mentre tipico della destra è mettere da parte quella tutela al fine di una sempre maggiore e accelerata produzione, e ciò al punto di poter fare a meno anche della componente umana del lavoro, con tutto quello che ne consegue sul piano sociale, della disuguaglianza sociale e della disparità dei diritti.

Nella delocalizzazione industriale, infatti, ai proprietari d’azienda non interessano affatto i dipendenti né tanto meno il mantenimento degli stipendi del personale, ma solo la commercializzazione dei prodotti attraverso la terziarizzazione della produzione.

Una volta riconquistato il consenso perduto e con esso quindi anche il potere, la sinistra, si arguisce dal discorso di Ferraris, dovrebbe impegnarsi a fare dei provvedimenti legislativi che abbiano come obiettivo principale la socializzazione dei Big Data e soprattutto (ecco la chiave di volta dell’idea del filosofo) la tassazione delle grandi compagnie di raccolta dei dati.

La cui conservazione o registrazione consentirebbe di poter accumulare un capitale e un nuovo plusvalore, tassando il quale si potrebbe essere in grado di finanziare il welfare del XXI secolo o di coprire, almeno in parte, il costo delle manovre finanziarie.

Ecco, dunque, l’intuizione di fondo di Ferraris per un «welfare digitale», sostenibile, ad esempio, con i 250 milioni di euro che l’Ue chiede ad Amazon non tanto e non solo per i prodotti venduti al dettaglio sulla propria piattaforma, quanto per i market place, ossia per i rivenditori terzi che utilizzano tale piattaforma…. CONTINUA

Noa

 

Noa, la violenza e la forza della vitaNOA, LA VIOLENZA E LA FORZA DELLA VITA

 

di Franco Di Giorgi

 

La violenza è all’origine e quindi a fondamento della civiltà.

Essa veniva esercitata dal padre che possedeva tutte le donne che desiderava imponendo il proprio dominio all’interno dell’orda primitiva.

Noa Pothoven suicida

Se, nonostante il progresso dell’umanità, abbiamo ancora a che fare con essa, persino nella stessa forma arcaica, vuol dire che la violenza è inemendabile.

Gli stupri, anche quelli sistematici, sono ancora all’ordine del giorno.

Basta guardarsi attorno.

La storia è piena di abusi, di abusati e di abusanti.

Da ogni parte si moltiplicano le vittime e i carnefici.

In tutte le sue possibili manifestazioni, la violenza prolifica sotto i nostri occhi.

Attecchisce sotto i nostri piedi come erba infestante di cui i figli più odiosi di quei lontani dominatori posseggono i semi.

Essa si è talmente rarefatta e assottigliata che si può persino respirare nell’aria.

Difficile, per non dire impossibile, riuscire a non assimilarla.

Ci viene subdolamente servita attraverso il web e somministrata a dosi massicce dai media, in ogni istante della nostra giornata.

I nostri sensi e la nostra mente vengono continuamente offesi, aggrediti, assediati.

Non sembra esserci via di scampo alla violenza.

Ciò malgrado, l’umanità non si è mai arresa alla violenza.

Anzi, per limitarla e per limitarne l’inevitabile distruttività, e con essa anche l’insostenibile portata di dolore, ne ha fatto il racconto base della sua storia, il basso continuo della sua tragedia, il comune denominatore di tutti gli ambiti del sapere, di tutta la cultura.

Giacché quella che chiamiamo “cultura” altro non è che “coltura”, ossia coltivazione dell’animo umano per poter meglio gestire la violenza.

Come non c’è violenza senza umanità, così non c’è umanità e cultura umana senza violenza.

Da questa prospettiva l’umanesimo si configura come una tendenza della cultura umana il cui fine è il perfezionamento dell’arte di raccontare la violenza e dei modi mediante cui essa può venire sublimata.

Il teatro e le arti erano sorti proprio per questo scopo catartico.

La civiltà dei diritti e dei doveri si afferma per evitare la violenza, lo stesso cristianesimo nasce con un atto di estrema violenza, con la crocefissione.

La sostanza dei miti, anche di quelli biblici, è violenza allo stato puro.

Eppure, questa innata tendenza degli esseri umani all’autodistruzione e alla reciproca violazione non potrebbe essere arginata se non intervenisse la vita con i suoi miracolosi rimedi.

La misteriosa potenza della vita risiede nel fatto che, anche quando viene violentata in uno dei suoi esseri più puri, riesce sempre in qualche modo a sopravvivere.

Anche quando risulta impossibile vivere, la forza della vita si impone sulla morte e, se non le si impedisse di esprimere una tale forza, essa continuerebbe ad affermarsi malgrado tutto; troverebbe sempre delle vie per sopportare il dolore, anche quello più cupo e insoffribile che ogni ferita, visibile o invisibile, comporta.

La vita infatti si afferma anche quando assume le sembianze di un processo irreversibile che conduce l’essere, più o meno rapidamente e comunque inesorabilmente, alla consunzione e all’estinzione; oppure quando viene inspiegabilmente ricoperta, ottenebrata e soffocata da un male oscuro.

Anzi, paradossalmente, talvolta si rileva che proprio in questi casi estremi, proprio quando sta per estinguersi e per esaurirsi in un corpo annichilito nella sua forma sostanziale, la vita si rivela al vivente, all’ancora vivente, in tutta la sua enigmatica pregnanza.

Nell’essere vivente umano, infatti, essa raggiunge uno dei gradi più alti della coscienza di sé. L’uomo, che è vita cosciente, si sente vivere e si sente quindi anche morire.

E in ciò prova il piacere del vivere e il dolore del morire.

Ma quando viene violentato, offeso, torturato, umiliato, questa duplice esperienza della vita viene sconvolta e mutata: egli prova allora solo dolore nel vivere e piacere nel morire.

È il caso di Noa Pothoven.

Nel suo caso la violenza ha turbato in profondità non solo la sua vita personale, ma anche la vita in sé. “Respiro, – diceva la diciassettenne olandese – ma non sono più viva”.

È come se la violenza avesse in lei, attraverso lei, non spenta, ma solo attenuata per un istante la forza propria della vita, a causa di cui anche tutti noi avvertiamo di essere più deboli, meno vitali, più inclini alla morte, ancora meno pronti nella sua attesa e al suo sempre imprevedibile sopraggiungere.

Tuttavia, più che la decisione eutanasica della singola persona, ancorché giovane – una scelta particolare la sua, resa però possibile da una scelta generale che ha portato nel 2002 e poi nel 2004 in Olanda a una legge che la consente – quello che in questo caso ci ha maggiormente impressionati e turbati è stata propriamente l’attenuazione dell’energia vitale universale.

Come se, attraverso la decisione di quella ragazza, avessimo appreso che la vita, a causa di quella violenta ferita subita da entrambe, si fosse per qualche momento arresa, avesse perso ancora una parte di quella forza originaria che le è intrinseca.

Una forza che, sebbene diminuita, le rimane comunque coessenziale, e grazie alla quale riesce quasi sempre a trasformare la liberazione della morte in liberazione dalla morte; riesce insomma assieme a tutti noi e a tutti gli esseri che vivono sulla Terra, non a cedere o a desistere, ma a incedere e a resistere, a contrapporsi e a convivere con la morte.

Attraverso quella decisione di Noa, infine, è come se la potenza della vita avesse perso anche parte del suo mistero, del suo fascino enigmatico con cui da sempre, come un’eterna amata, ci attrae e ci lega ad essa, al punto che non vorremmo lasciarla mai.

13 giugno 2019