Franco Di Giorgi

Franco Di Giorgi, eminente filosofo e scrittore, ha dedicato la sua carriera alla ricerca di connessioni profonde tra diverse discipline.

Ha spaziato dalla filosofia alla memorialistica, dall’esegesi biblica all’estetica letteraria e musicale.

Franco Di Giorgi scuola e CostituzioneIn qualità di insegnante di Storia e Filosofia, ha lasciato un’impronta duratura nel mondo della scuola.

Di Giorgi si distingue per la sua significativa riflessione sulla Shoah.

In particolare su Primo Levi.

È autore di sette libri.

Nel suo lavoro “Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah” del 2004 e “A scuola di Resistenza” del 2006, esplora la memoria concentrazionaria e resistenziale, offrendo una prospettiva unica e approfondita su uno degli eventi più tragici della storia umana.

La sua versatilità intellettuale si riflette nella sua capacità di connettere la filosofia con la memorialistica, l’esegesi biblica con l’estetica letteraria e musicale.

Inoltre opere come “Giobbe e gli altri” del 2016 e “Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso” del 2018 testimoniano la sua profonda immersione in temi biblici e filosofici.

Oltre alla sua produzione di libri, Di Giorgi ha contribuito a numerose riviste di prestigio, tra cui Testimonianze, Fenomenologia e Società, Nuova Rivista Musicale Italiana e altre, consolidando la sua reputazione come pensatore e saggista di spicco.

La sua influenza si estende anche all’ambito online, dove ha contribuito a riviste come Scenari, Carte di Cinema, volerelaluna.it e SergioDalmasso.com.

Il professor Franco Di Giorgi, con la sua elevata erudizione e la sua dedizione alla comprensione critica della storia e della filosofia, continua a lasciare un’impronta significativa nel panorama accademico e nella riflessione intellettuale contemporanea.

Recentemente ha pubblicato il volume intitolato:

Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi”,  Mimesis Milano, luglio 2023.

Articoli

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

 

di Franco Di Giorgi

Ieri (manifesto del 20 aprile 2019), con la cattedrale di Notre Dame ancora in fiamme, abbiamo espresso tutto il nostro stupore per l’ingente profferta subito sopraggiunta da tutto il mondo per la ricostruzione del tetto di quel luogo sacro: quel gesto ci aveva turbato perché ci era parso significasse che per gli uomini le cose sacre abbiano un valore superiore a quello delle stesse vite umane.

Oggi, a pochi giorni da quell’“incidente” parigino, dopo gli attentati in Sri Lanka, in luoghi altrettanto sacri ma certo meno carichi di valore simbolico, siamo costretti a rivedere e anzi a ribaltare il nostro giudizio.

Oggi crediamo che il significato di quel gesto generoso non sia del tutto infondato, proprio in ragione della distruttività e soprattutto dell’autodistruttività umana.

Infatti, mentre da un lato l’uomo, con la sua capacità distruttiva e colpevole svalorizza sia le sue stesse creazioni sia il mondo e la natura che le accoglie, dall’altro lato i luoghi del mondo, che l’uomo stesso ha reso sacri proprio in virtù delle sue credenze e delle sue creazioni, ebbene questi luoghi, in tutta la loro meravigliosa e silente innocenza, cercano al contrario di testimoniare nei secoli il valore dell’uomo.

Anche il senso della damnation a questo punto muta.

Diviene molteplice: non riguarda più soltanto l’inferiorità dell’uomo rispetto alle cose, né solo la distruzione delle cose o solo l’autodistruzione dell’uomo; riguarda anche il fatto che con la sua innata distruttività, distruggendo le sue stesse opere, esso non fa altro che distruggere se stesso.

Ciò pertanto induce a rivedere anche la teoria spinoziana del conatus, secondo cui l’essenza di ogni essente consiste nello sforzo di mantenersi nel suo essere.

25 maggio 2019

 

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

Libertà di insegnamento

La crisi delle istituzioni e la libertà di insegnamento

 

di Franco Di Giorgi

Libertà di insegnamento

Alle Istituzioni di un Paese alle prese con una crisi sistemica (propria cioè del sistema capitalistico) che non sa come fronteggiare e che non riesce strutturalmente a risolvere e a superare (una crisi che lo relega ormai da più di un decennio fra gli ultimissimi posti tra gli Stati membri dell’Unione europea), di un Paese che non sembra visibilmente capace di uscire dalla recessione in cui quella crisi l’ha gettata, soprattutto per l’enorme peso del debito pubblico accumulato e che continua ad accumulare;

a queste Istituzioni che, proprio a causa della loro inettitudine gestionale e soprattutto progettuale, vengono da tempo irrise e sbeffeggiate sia dalle loro omologhe europee sia dalla stessa cittadinanza mugugnante di cui dovrebbe occuparsi, specie quando si atteggiano e si incarnano in figure come quella del “cavaliere della libertà” o del “capitano di ventura” e in ogni caso in quella del “Robin Hood” al contrario;

ebbene, a queste Istituzioni così piene di livore verso se stesse in ragione proprio di questa loro inabilità, a cui non resta che fare i forti con i deboli, a queste Istituzioni, insomma, viene spontaneo punire la classe degli insegnanti.

Perché dopo aver ridotto quasi al silenzio operai e pensionati, con i loro rispettivi sindacati, depotenziata e impoverita la classe media, stanno tentando da un po’ di tempo a questa parte (almeno dall’inizio del nuovo millennio, piano piano, un po’ alla volta, per non lasciar intravedere il disegno demolitivo e disintegrante) di spegnere il libero pensiero critico nei giovani, nei cosiddetti “millennials”, e quindi, ovviamente, principalmente nelle scuole:

stanno in altre parole cercando di cancellare quella stessa libertà di insegnamento e di formazione che la nostra Costituzione sancisce all’articolo 33.

Giacché è qui, è solo qui, nelle scuole, che nonostante tutto, nonostante cioè il loro sfascio ormai manifesto, il loro lento ma inesorabile deragliamento, è soltanto qui, nelle scuole, che sopravvive a fatica la possibilità di progettare e costruire il futuro di un qualsiasi Paese, è solamente qui che si formano individui pensanti e cittadini consapevoli.

Senza dei quali non resta che la squallida miseria del presente, che è prodotto o dell’assenza atrofica o dell’eccesso ipertrofico di memoria, è prodotto dello svuotamento dei contenuti progettuali per il futuro, cioè della stessa possibilità di concepire e di immaginare un futuro.

Le Istituzioni sanno bene dell’esistenza e delle potenzialità insite in questa libertà che la Costituzione (frutto della Resistenza) prevede e conferisce all’insegnamento e alla scuola.

Ed è per questo che, anche con il pretesto spiazzante dell’inarrestabile rivoluzione tecnologica, vorrebbero spegnerla. C’è dell’incompiuto, diremmo con Paul Ricoeur, nella nostra Resistenza, nella nostra Costituzione, come pure nel nostro ’68.

Un incompiuto che andrebbe compiuto.

In questo senso, diceva, il filosofo francese, bisogna fare non solo storia, ma fare la storia: bisogna compiere la storia incompiuta.

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Articolo 33 della Costituzione italiana:

L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad essa piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

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p.s. Su “Scenari di Mimesis” potete trovare invece un mio lungo commento (in due parti) alla serata eporediese che Cacciari ha dedicato al tema dell’Europa.

 

 

 

Cittadinanza onoraria Marcello Martini

cittadinanza onoraria Marcello Martini

Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 4 maggio il Comune di Castellamonte ha conferito a Marcello Martini – deportato nel Lager di Mauthausen – la cittadinanza onoraria.

Un tale conferimento a persone come lui andava fatto non solo in segno di rispetto per quello che, assieme a tanti altri innocenti, ha subito in quei luoghi di tortura e di morte che solo l’altro ieri infestavano ed erano attivi in diversi Stati dell’Europa civilizzata (compresa l’Italia), ma soprattutto per un senso del dovere, per quello che egli è e per quello che ancora rappresenta nella storia del vecchio continente.

Per questa storia Marcello è e rappresenta un mártyros, ossia colui che nella lingua greca incarna ad un tempo il “martire” e il “testimone”.

Come tale, egli è una di quelle numerosissime vittime che rappresenta o ri-presenta (nel senso che ci fa ricordare) quella deviazione o aberrazione che solo una settantina di anni fa una certa quota di esseri umani aveva impresso all’umanità nel segno dell’annientamento, della distruzione e dell’autodistruzione.

In una parola, nel segno della Vernichtung o della Shoah.

Più che di un errore si era trattato infatti di un erramento, di un’erranza da un solco che fino a quel momento l’umanità aveva tracciato e coltivato per cercare di dare un senso a una delle domande più originarie e più profonde: “verso dove andiamo?”.

Con i propri occhi egli ha visto e sulla propria pelle ha sentito la Gewalt, la violenza tremenda che era stata necessaria per fare deragliare l’umanità da quel solco e per farla precipitare nella più squallida abiezione.

Gli esseri umani, infatti, ricordava Liana Millu (un’altra deportata, ma nel campo di Auschwitz), una volta sfruttati, venivano gettati via come degli obiecta, come degli oggetti, come delle cose, come delle sedie che, una volta rotte, si buttano via.

Si facevano delle cataste e poi vi si dava fuoco.

Per questo motivo la martyría, la testimonianza degli scampati al Nulla, al Nicht, è sacra, perché il loro martýrion, la loro esperienza vissuta e patita, per quanta passione essi mettano nei loro racconti e per quanta attenzione facciano coloro che li ascoltano, lo rammentavano amaramente sia Wiesel sia Améry, è difficile da dire e quindi da tramandare.

Le parole infatti, confessava lo stesso Primo Levi, funzionano male sia «per cattiva ricezione», «sia per cattiva trasmissione».

Questa confessione compare nella Prefazione che Alberto Cavaglion ha scritto per la pubblicazione della testimonianza di Martini: Un adolescente in Lager.

Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007). Il significato di questo sottotitolo è equivalente al titolo della prima testimonianza di Levi, Se questo è un uomo.

Vale a dire: gli occhi del quattordicenne Marcello (nato a Prato nel 1930, catturato il 9 giugno del 1944 e liberato il 5 maggio 1945) hanno visto e vissuto tutto il valore dubitativo implicito in quel “Se”: se questo è un uomo, com’è allora che egli può compiere sugli altri uomini quello che ha compiuto?

Com’è che, sebbene in modalità diverse, continua ancora a compiere?

E inoltre, quanto doveva odiare se stesso se, per quanto in generale di formazione cristiana, aveva messo da parte il principio “Ama il prossimo tuo come te stesso”?

È su questo dubbio atroce che si dovrebbe riflettere in maniera adeguata, e non solo in occasione della Giornata della Memoria. L’attualità (non solo politica), poi, ce ne dà quotidianamente spunto.

9 maggio 2019

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Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini:

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La liberazione

La Liberazione libera anche chi ne abusa

Franco Di Giorgi

La liberazione libera anche chi ne abusa

Ivrea, partigiani in piazza di città

Senza la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, compiuta il 25 aprile del 1945 in virtù della resistenza e della lotta opposta da una minoranza eroica sostenuta dagli Alleati, a nessun Italiano oggi sarebbe possibile esprimersi liberamente anche contro di essa.

Ad ogni modo, proprio in quella data fondativa (che gli storici preferiscono indicare in cifre romane), la Liberazione diede la libertà a coloro che, malgrado i governi liberali di una monarchia illuminata, non sapevano nemmeno che cosa fosse, anche se, specie durante il Ventennio, ogni tanto la vivevano meravigliati in sogno o la incontravano altrettanto stupiti tra i versi di qualche poeta classico, negli sguardi e nei giochi dei bambini, oppure ne sentivano intimamente il gusto ascoltando della musica o intonando qualche motivo popolare.

Per secoli gli Italiani erano stati avvezzi alla sudditanza, e quindi all’inizio, sebbene la Costituzione parlasse molto chiaro, non sapevano come fare con quella libertà, con quella nuova possibilità esistenziale, non sapevano come approcciarla e in che misura disporne.

Ecco perché, come Adamo nell’Eden, presi dall’ingordigia, dalla tracotanza, andarono incontro ai primi erramenti, commisero le prime intemperanze, si abbandonarono ai primi eccessi.

Giacché la intesero come la libertà di dire e di fare tutto ciò che si voleva, anche, appunto, contro la stessa Liberazione.

Col rischio pertanto di perderla, come era in parte già successo circa un secolo prima ai contadini siciliani di Bronte.

La Liberazione, dunque, conferì innanzitutto ad ognuno la libertà di esprimersi liberamente, però entro una certa misura prevista dalla legge e dalla Costituzione, che è quanto di più misurato ed equilibrato un documento fondativo possa rappresentare ed esprimere. Ma non mancò subito qualche ribaldo che, approfittando delle garanzie offerte dalla democrazia, non perse tempo ad eccedere capricciosamente quella misura.

E poi, al di là di ciò e nonostante ciò, la Liberazione libera tutti. D’altronde deve essere così, se no non è libertà.

Essa ha infatti liberato sia quelli nati prima del fascismo, sia quelli nati durante sia quelli venuti al mondo dopo la dittatura fascista.

Ha persino liberato dopo quelli che prima volevano negare la libertà agli altri facendone una cosa propria.

Come pure liberò quelli che, durante, in vario modo, restarono a guardare, ad attendere, con le braccia conserte o con le mani giunte e nervose, che passasse la nottata e che uscirono solo alla fine sui balconi a salutare i giovani partigiani dal volto serio che scendevano finalmente in città lasciandosi alle spalle le vicine montagne.

La Liberazione del 25 aprile ha in altre parole amnistiato gli Italiani dal reato di minorità (di Unmündigkeit diceva Kant), emancipandoli ed innalzandoli di colpo a uno stato giuridico responsabile e di maggiore consapevolezza.

Anche se non tutti, naturalmente, raggiunsero e maturarono quella cognizione, quel senso di responsabilità, insomma quella coscienza necessaria per il giusto uso della libertà.

Non tutti riuscirono ad elevare la propria realtà umana a quell’ideale spirituale di libertà.

Come tanti piccoli e grandi Prometeo, i partigiani avevano lottato per strappare quell’ideale agli dei e ora lo recavano agli uomini, solo che non tutti ne furono all’altezza.

Essa liberò pertanto anche quelli che ne hanno abusato e libera quelli che ancora ne abusano; quelli che in generale hanno concepito egoisticamente il dono come un “condono”, perché a differenza di coloro che l’avevano sperimentato sulla propria pelle, questi altri non sanno, non hanno ancora piena cognizione di quel dolore che comporta il non essere liberi, questi ancora oggi non si sono emancipati perché, pieni e inebriati dalla propria tracotanza all’interno della stessa libertà che respirano, non hanno ancora superato quello stato di minorità.

Come i Millennials sono nati nell’epoca del web, così tutti quelli che sono nati dopo il 25 aprile del ‘45, dopo il 2 giugno del ’46, dopo il ’47 e soprattutto dopo il 1º gennaio del ‘48, sono nati alla libertà e alla democrazia.

Pur vissuti nella povertà, nei rifugi antiaereo e tra le macerie dei bombardamenti, per tutti costoro è stato e continua ad essere naturale disporre della libertà, perché la trovano come un dato naturale.

Anche perché nessuno gliene rende conto, nessuno vuole niente in cambio per essa.

Se non il giusto rispetto della legge e dei valori sanciti dalla Costituzione.

Con la libertà si ha infatti a che fare con un valore inalienabile, perché si tratta di un vero dono disinteressato ricevuto sia dai partigiani, che hanno messo a disposizione non la vita genericamente intesa ma la loro propria vita, sia dai padri e delle madri costituenti che, sebbene con visioni politiche differenti e per quanto necessitati a sedersi attorno a un tavolo sotto la grave pressione dello scontro Usa-Urss, si sono dati, sacrificati e impegnati per far sì che tutti quei loro sforzi trovassero finalmente un solco comune e sintetico (perché solo l’intelligenza è capace di sintesi), affinché quel dono spirituale prendesse forma, anima e corpo nella nuova Costituzione (che è sintesi delle sintesi) e nella Repubblica democratica (che esprime quella forza sintetica capace di conciliare gli opposti, la singola res con la pluralità del démos).

La scuola e l’istruzione, specie la disciplina della storia, hanno in particolare il delicatissimo compito di ricordare ai figli e ai nipoti dei liberati (mentre se ne servono respirandola avidamente come l’aria, come qualcosa di cui non possono più fare a meno) che la libertà di cui si giovano pur essendo un dono, una donazione, una per-donazione, non è affatto un dato naturale, bensì sempre e a qualsiasi latitudine il frutto, il risultato di una lunga e dolorosa conquista dello spirito umano.

La scuola, peraltro, ci può anche far comprendere che la libertà così acquisita può avere anche un prezzo, nel senso che può venire limitata e condizionata anche dagli stessi Alleati.

Ecco perché, crisi o non crisi, la formazione culturale e intellettuale, cioè non solo tecnica, dei giovani dovrebbe essere considerata dal sistema politico non come la ruota di scorta, ma come uno degli assi portanti della Repubblica.

Ma forse, nonostante i molti annunci con aumenti-elemosina da parte del ministero della pubblica istruzione, a qualcuno delle cosiddette “élites” italiche fa comodo che la scuola nel nostro Paese resti ben chiusa nel cofano del carrozzone Italia.

Ci si libera sempre in ogni caso con le proprie mani, ognuno con il proprio cric – lo sapevano bene i partigiani e tutti coloro che li hanno sostenuti – e ciò vale sia per il singolo che per i popoli.

La libertà si raggiunge solamente quando si è mossi, si viene mossi da un ideale, in ogni caso da qualcos’altro da sé, da qualcosa che avvertiamo dentro di noi e che pure ci trascende mettendo in crisi il nostro ego, la nostra esistenza buia, bassa e senza scopo.

Ecco perché essa, la libertà, in quanto frutto di una lotta di Liberazione, non è soltanto una questione politica, ma è anche e soprattutto una “questione privata”.

La prima questione è sempre intrecciata con la seconda.

Non si può difatti lottare per la Liberazione degli altri se prima non ci si è liberati del proprio egoismo, né viceversa possiamo liberarci del nostro egoismo se non facciamo l’esperienza purificante e autentificante della lotta di Liberazione per tutti gli altri. È in questo chiasmo esistenziale che matura l’auto-emancipazione dell’uomo e degli Stati.

La via che ha condotto alla libertà e che noi vediamo (quando la vediamo) sempre percorsa da un lungo e interminabile tappeto rosso, è in realtà cosparsa del sangue purpureo donato da quella minoranza di maturi e di auto-emancipati che ci ha preceduto, come pure da quegli Alleati caduti per il nostro Paese, povero ma ricco d’arte.

Quella via, per noi esseri viventi liberi, è in realtà ricoperta di morti, la cui cenere il vento ha disperso da tempo. I loro nomi tuttavia si possono ancora leggere andando per via o girovagando per le piazze.

Le loro immagini, i loro sguardi, le loro azioni e le loro parole sono ancora incise nella memoria di chi ha sentito o letto quelle parole, ammirato quelle azioni, scrutato quegli sguardi, conservato quelle immagini.

Una memoria che, per il timore di perderla, ora può venire conservata su supporti informatici, forse meno insicuri delle umane capacità ritentive.

Ad ogni modo, malgrado le sbruffonate di qualcuno che si prende e si arroga la libertà di inneggiare alla non libertà, di qualcuno che non ha ancora maturato in sé la comprensione di quello che significa non esser liberi, speriamo che in futuro non ci sia più bisogno di un’altra lotta di Liberazione (anche per noi, purtroppo, diventata pure guerra civile), intesa come ennesima lezione, come ripasso da dare agli immaturi irriconoscenti dalla coscienza inguaribilmente divisa e divisiva.

Non si può scherzare, non si può giocare infine con la libertà. E sarebbe meglio non transigere su queste irriverenti spacconate. Sebbene ne offra seriamente la possibilità, la libertà non è affatto un gioco.

Soprattutto non è un gioco solitario, individuale, perché la sua serietà presuppone sempre l’altro, tutti gli altri e quindi la solidarietà e il rispetto. O si è liberi tutti oppure nessuno lo è.

Giacché si è uguali nella libertà. Essa si realizza pertanto solo attraverso l’eguaglianza.

E quindi non ci può essere vera e concreta libertà senza uguaglianza dinanzi alla legge, senza parità di diritti, senza solidarietà.

La nostra Repubblica non deve poi aver paura di affermare con giustizia, chiarezza e rigore questi suoi valori costituzionali, questi preziosi e inestimabili doni ereditati dalla Resistenza, giacché la sua lenta e incerta azione sanzionatoria può talora essere intesa come invito a continuare ad abusare della libertà.

(27.04.2019)

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Notre Dame

Lettera al Manifesto di Franco Di Giorgi

A fronte degli 800 milioni di euro raccolti nel giro di poche ore per la ricostruzione del tetto della cattedrale di Notre Dame abbiamo la conferma che a confronto delle opere create dagli uomini, specie quelle di valore sacro, l’esistenza dei corpi umani non ha alcun valore.

Oltre al cielo parigino, quelle fiamme hanno illuminato e rivelato anche questa semplice verità, che grava sull’umanità come un couvercle d’angoisse.

Un’angoscia che, certo, avevamo avvertito anche dinanzi alla demolizione dei templi siriani di Palmira o dei Buddha afghani di Bamiyan, e che temiamo possa riemergere in occasione di ogni guerra, compresa naturalmente quella che si è appena inaugurata in Libia.

Ovvio, la guerra – la Verwirrung – genera caos in un’attività distruttiva che i medesimi esseri umani non riescono ad evitare per difendere i propri interessi; determina condizioni in cui sia le opere d’arte sia le vite umane perdono improvvisamente il valore sacro che in tempo di pace i contendenti sono propensi ad attribuirvi; è quella circostanza nella quale la materia organica dei corpi umani si mischia anzi tempo con la materia inorganica delle opere d’arte; consiste insomma in quella singolare situazione nella quale tutto diventa pattume allo stesso titolo.

Notre Dame

Quella generosa e consistente profferta viene pertanto a riconferma di quanto gli uomini sanno sin dalla loro comparsa sulla Terra: le cose (cibo, terra, oro, denaro, simboli del potere e della propria specifica identità) hanno molto più valore degli esseri umani.

E cos’è mai questa, se non la nostra vera dannazione originale, notre damnation?

sabato 20 aprile 2019

Conversazione vangelo di Tommaso

 

Franco Di Giorgi e Domenico Curtotti dialogheranno coinvolgendo il pubblico, il 12 aprile 2019 presso la sala arancione – ZAC (Movicentro, Ivrea) dalle ore 18.00 alle ore 19.30, sul vangelo di Tommaso.

 

Di seguito la locandina dell’evento, assieme ad un cordiale invito a tutti gli interessati.

 

icona download pdfLocandina Conversazione sul vangelo di Tommaso

Conversazione vangelo di Tommaso
Il Vangelo di Tommaso, scoperto nel 1945 in un vaso insabbiato nei pressi di Khenoboskhion, in alto Egitto, è coevo al Vangelo di Giovanni e la testimonianza di un cristianesimo molto antico, al di qua dell’opposizione di “ortodossia” ed “eterodossia”.

Se il Gesù del Vangelo di Giovanni domanda che si “creda” perché non ci colpisca “l’ira di Dio”, il Gesù di Tommaso ci esorta a cercarlo strenuamente dentro di noi e dovunque intorno a noi: è il taglio interioristico e pan-cristico di questo straordinario vangelo, che scuote dalle fondamenta l’edificio dottrinale di secoli di cristianesimo.

Per la Pagels, è “la scoperta più sconvolgente del cristianesimo delle origini”; per altri studiosi e teologi, anche cattolici, è senz’altro “il quinto evangelo”, che per antichità, dignità, profondità e bellezza dovrebbe ritrovare il suo posto accanto ai vangeli “canonici”.

La presente edizione, corredata dal puntuale commento ad ogni “detto” di Gesù e da un vasto apparato informativo, vuole rendere il testo pienamente fruibile anche al lettore comune.

In appendice l’edizione offre un’altra straordinaria testimonianza del cristianesimo antico: la Danza pasquale di Cristo, l’abbraccio nel Crocifisso del donare e dell’accogliere, della vita e della morte, del bene e del male, dell’uomo e di Dio.

Hodós eirénes

di Franco Di Giorgi

Hodós eirénes

Presentazione di “Hodós eirénes”

Non c’è nessuno che sia giusto, neppure uno.

Non c’è uomo che sia sensato, non c’è chi cerchi Dio.

Tutti deviarono, insieme si ridussero a inutilità.

Non c’è chi faccia il bene, neppure uno (Salmi 14, 1-3).

Sepolcro spalancato la loro gola, con la loro lingua tramavano inganni (Salmi 5, 10).

Veleno di serpenti sotto le loro labbra (Salmi 140, 4).

Piena di maledizione e di amarezza la loro bocca (Salmi 10, 7).

Rapidi i loro piedi a versare sangue. Distruzione e disgrazia sui loro cammini.

E il sentiero della pace lo ignorarono (Rm 3, 10-17).

Vivere e non accorgersi di ex-sistere, di star fuori.

Esservi o essere già in questo sentiero e tuttavia non saperlo, ignorarlo, non poterlo (non potersi) raggiungere e quindi essere costretti a cercarlo (a cercarsi) continuamente: ecco l’essenza dell’hodós eirénes.

Un sentiero che passa dall’essere e dall’esserci: li accomuna, li collega, li mette in relazione, in comunicazione.

Informazione del libro

Edizione : 2a
Anno pubblicazione : 2019
Formato : 11,4×17,2
Foliazione : 324 pagine
Copertina : morbida
Stampa : bn

Spero sia di vostro gradimento questa nuova segnalazione libraria.
Un cordiale saluto.
Franco Di Giorgi

L’Italia civile a Milano per ribadire un solo principio:

“Prima le persone!”

Una riflessione/testimonianza di Franco Di Giorgi

L’Italia civile a Milano per ribadire un solo principio Prima le persone

 

 

L’Italia ‘civile’, certo, non è tutt’altra cosa dall’Italia ‘politica’.

Ne è solo l’altro volto: il volto civile, appunto, il volto pulito e onesto, il volto vero.

Ma tutti quei 200 mila Italiani che sabato 2 marzo hanno sfilato per le vie di Milano, assieme ai loro amici immigrati, hanno potuto vederlo quel volto vero, hanno potuto vedersi.

200.000 persone alla manifestazione antirazzista di Milano

Provenendo da ogni parte della penisola, sono confluiti e si sono ritrovati congiunti lì per ribadire un solo principio: ‘Prima le persone’.

Il momento rivelativo di questo sorprendente auto-rispecchiamento, di questo ravvedimento, di questa presa di coscienza era quello in cui tutti i milanesi che accorrevano incuriositi ai bordi delle strade o che si trovavano a passare di lì per i loro improcrastinabili affari affannosi si fermavano e si mettevano all’improvviso ad applaudire, a unirsi ai canti o a rimarcare con forza quel “Siamo tutti antifascisti!”, oppure quell’ “Oggi e sempre Resistenza!” che si innalzavano dalle file dell’Anpi, da quel corteo civile di manifestanti che procedeva lento e pacifico al ritmo di tamburi festosi.

E ciò stava a significare che in tutti loro, dentro di loro, malgrado il forte vento che continua a spirare dall’aspro e ottuso fronte della politica, la fiammella della pietas e della solidarietà, ossia delle radici dell’umanità, non si è affatto spenta.

Stava a significare che in tutti quegli Italiani, in quella bella rappresentanza dell’Italia vera, il desiderio, la pulsione per un impegno civile e disinteressato non è stato del tutto represso.

È rispecchiandoci infatti in questa bell’Italia che possiamo sperare finalmente di ritrovarci, di riscoprire il nostro naturale altruismo, il nostro spirito di accoglienza, e riconquistare così la fiducia in noi stessi.

ANPI IVREA amici Di Giorgi, Giovanni Savegnago e altri

Sì, noi Italiani, in questo nostro magnifico Paese, che è uno dei fondatori dell’Unione europea, depositario dei più alti valori culturali e civili europei.

Lo sguardo di coloro che osservavano quella fiumana colorata, una volta giunta alla fine del suo percorso, si colmò di stupore quando l’acustica della famosa Galleria milanese si mise ad amplificare le note di “Bella ciao”.

Qual era il messaggio che, proprio dinanzi alla Scala, questo canto universale rilasciava nell’aria tiepida?

Era comprensibile a tutti: solo il tu, solo l’altro può far riscoprire il vero volto dell’io, solo l’altro ci può salvare.

E non solo a noi Italiani.

Lunedì 4 marzo 2019

Franco Di Giorgi

Video della manifestazione del 2 marzo 2019 a Milano

Giobbe di Roberto Anglisani

di Franco Di Giorgi

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Giobbe di Roberto Anglisani

 

A proposito del “Giobbe” di Roberto Anglisani

 

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Stupefacenti anzitutto due cose.

La prima: la capacità sintetica del Niccolini, il quale è riuscito con maestria a ridurre quel meraviglioso romanzo dello scrittore ucraino-austriaco, nel quale si condensa una molteplicità poliedrica di vicende che riflettono in parte la vita di Roth vissuta quasi da “ebreo errante”.

La seconda: l’abilità narrativa dell’attore, il quale ha saputo raccontare l’essenza di ogni singolo personaggio, prestando ad essi la voce e adattandovi l’inflessione tonale, senza mai cadere nel banale e nel ridicolo.

Anche perché la storia che egli raccontava, pur riguardando persone umili e semplici come Mendel Singer – ulteriore pseudonimo di Giobbe, che nel testo sacro viene presentato come ‘ish tam veiashàr, uomo integro e retto –, tratta in realtà di una tragedia, ossia della banalità attraverso cui si insinua e si manifesta non solo il tragico e il male, ma anche la dolorosa insensatezza dell’esistenza.

Sia Giobbe di Uz, sia Mendel Singer di Zuchnov, infatti, sono la simbolica attestazione del fatto che dinanzi alle dure prove che la vita riserva, l’uomo è tentato di negare un senso a ciò che invece, seppure difficile a vedersi, un senso ce l’ha e come.

Sono la rappresentazione del tentativo di voler ridurre e ricondurre, anche inconsapevolmente, il senso solo all’umano e non al divino, come se la dimensione del senso dipendesse solo dall’agire dell’uomo, ossia da un agire calcolabile e programmabile e non anche invece dall’intervento miracoloso del divino o del divino caso.

In fondo, malgrado la loro pur evidente e persino ostentata sottomissione al Signore, nonostante il loro timore e tremore dinanzi a Dio, i loro “perché?” – Làmmah? Maddùa’? – innalzati dai due sventurati come suppliche al loro Signore non esprimono altro che questa specie di hýbris ferita, ossia l’arroganza umana che si vede di punto in bianco privata della propria (illusoria) autorità in merito alla costituzione del senso.

Sia il dramma biblico sia la ripresa rothiana di esso, con modalità e con efficacia differenti, sono la drammatizzazione di questa specie di pólemos, di contesa sul senso: una drammatizzazione che gioca narratologicamente sulla possibilità del miracoloso e del sorprendente, capace di umiliare l’uomo (che è humus, polvere e cenere, è terra, adamàh) e di persuaderlo, malgrado la sua ostinata protervia, circa il fatto che non tutto dipende dalla volontà umana, e che quanto c’è di più importante per lui, vale a dire la sua vita e la sua morte, dipende sempre da altro.

Certo, sia Giobbe sia Mendel Singer sono profondamente devoti al Signore: la loro vita e la loro morte sono quotidianamente rimesse nelle sue mani.

Ma in virtù di questa assoluta devozione essi, ragionando con l’unica logica di cui possono disporre, ossia quella umana, che è quella del do ut des, del dare per avere, si aspettano con una certa pretesa che Dio li tratti diversamente dagli altri che sono meno fedeli di loro.

Quanto meno, dopo l’abbattimento su di essi dello spaventoso inatteso, dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, insomma del disumano, essi si attenderebbero che Dio si abbassasse verso di loro e spiegasse per filo e per segno i motivi di cotanta durezza, mostrasse loro dove esattamente e cartesianamente hanno sbagliato per meritare questo castigo, questa pena insoffribile, questa assurda prova.

Come se l’essere umano, gettato in un mondo in cui tutto è destinato alla consunzione, potesse con i suoi pharmakoi, con i suoi cataplasmi medicamentosi sempre più efficaci, sfuggire alla distruzione e all’annientamento.

Eppure, non si avvede l’uomo che la vita altro non è che un diuturno sfuggire alle grinfie della morte?

Non si accorge Giobbe che molti dei miserabili che tenta di salvare scompaiono nel nulla?

Eppure egli, secondo il Job di Fabrice Hadjadj, non sembra essere così ipocrita come i suoi amici.

E poi, non si rende conto Mendel di quanto egli sia debole e impotente di fronte al destino dei suoi figli e di Menuchim in particolare?

Egli infatti non ha la forza dell’Abdia (altro nome per Giobbe) di Adalbert Stifter né quella di sua moglie Deborah, non sa comprendere la saggezza della femme de Job nella pièce di Andrée Chedid.

La speranza è l’ultima a morire: questo ci trasmette il mito giobbico, specie nella bella e luminosa versione di Joseph Roth.

Il messaggio che esso ci tramanda, pur in quest’epoca della postverità e dell’assenza del divino, ribadisce un principio che sembra essere inscritto nel dna dell’uomo, un principio che, proprio per questo, la dura realtà satanica non riesce a smontare e a cancellare, non riesce a farla passare come una fake news: il principio della necessaria priorità del negativo, secondo cui il senso si può rivelare all’uomo solo nel e attraverso il dolore.

28 febbraio 2019

 

GIOBBE Storia di un uomo semplice / Teatro d'Aosta 2017:

Stupore dell’orrore

Per il centenario della nascita di Primo Levi

di Franco Di Giorgi

 

Stupore dell’orrore. Per il centenario della nascita di Primo Levi

 

 

Non aveva torto Pikolo (Jean Samuel) quando diceva che Primo Levi sarebbe divenuto lo stesso un grande scrittore anche senza l’esperienza concentrazionaria. Lo stesso Pikolo, fra l’altro, aveva ammesso di essere “diventato più sensibile alla musica dopo essere passato per Auschwitz” (Mi chiamava Pikolo, 2008).

E anche Levi ammetteva una cosa simile quando nell’Appendice a Se questo è un uomo osservava che il Lager era stato per lui una specie di università, poiché “vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, h[a] imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”.

Dal canto suo, invece, Jean Améry aveva confessato che lasciando Auschwitz non era diventato né saggio né profondo, ma solo più accorto (Intellettuale a Auschwitz, 1991).

Ora, è lecito pensare che un uomo possa definirsi ‘scrittore’ quando riesce ad esprimere il vero sé a se stesso e che ciò non dipenda tanto da quello che scrive, ma dal suo proprio stile letterario, che riflette e rivela a se stesso, come in uno specchio, quel sé.

Ammesso che una tale definizione sia condivisibile, essa senza dubbio si attaglia perfettamente allo stile, tra il sentenzioso e il profetico, dello scrittore torinese.

Questo stile si nota subito, già nel primo capitolo di Se questo è un uomo – un’opera scritta di getto, subito dopo il ritorno dal Lager, sotto l’impulso irrefrenabile del dover testimoniare.

Il capitolo s’intitola “Il viaggio”. In esso Levi ci parla del suo doppio viaggio: quello che, dopo l’arresto (13 dicembre 1943), lo portò da Torino a Fossoli (fine gennaio 1944) e quello che da Carpi (il 22 febbraio 1944) lo condusse ad Auschwitz (26 febbraio, esattamente 75 anni fa) assieme ad altri 650 deportati.

Di questi, ci informa Italo Tibaldi, in Compagni di viaggio, solo in 24 riuscirono a sopravvivere sino al momento della liberazione del campo (27 gennaio 1945).

Oltre Levi, sopravvisse anche la sua amica Luciana Nissim. Impressionanti i versi di una canzone del campo che la deportata ha posto come esergo ai suoi Ricordi della casa dei morti: O Auschwitz, ich kann dich nicht vergessen, weil du mein Schicksal bist (O Auschwitz, io non posso dimenticarti, perché sei il mio destino).

Due “vite parallele” le definisce tra l’altro Alessandra Ginzburg in un contributo per un convegno dedicato alla psicanalista (Luciana Nissim Momigliano, 2012), non solo perché entrambi furono per circa un mese nel campo di Fossoli, ma soprattutto perché pur dentro all’orrore di Auschwitz, catapultati nel mondo alla rovescia, tennero ugualmente viva la volontà di capire e di conoscere.

E poi anche perché entrambi furono “salvati dal loro mestiere”: lui chimico, lei medico.

Ad ogni modo, dopo aver appreso la testimonianza di Levi si è portati a ritenere che per ognuno di noi c’è un padre carnale e un padre spirituale. Pur ammettendo che è il primo ad averci, consapevolmente o meno, donato l’esistenza, è senz’altro al secondo che si deve il risveglio spirituale ad essa.

Non basta, infatti, il primo vagito, il primo pianto o il primo amore puro a destare l’essere umano alla vita, perché, proprio in quanto puri (e qui pensiamo esattamente al “dolore allo stato puro” provato da Levi nei suoi sogni d’angoscia subiti durante le notti di Auschwitz) essi mancano di consapevolezza.

A suscitare questa consapevolezza, a farci prendere atto dell’esistenza e del fatto che siamo coscienza, è la riflessione non già su una singola persona e nemmeno su un intero popolo, bensì sull’essenza umana.

A questa essenza si riferisce Piotr Rawicz, la quale, però, secondo lui, è rappresentata dal popolo ebraico: “il fato e la condizione del popolo ebraico – osserva lo scrittore ucraino – sono la vera essenza della condizione umana” (cfr. David Patterson, The Shriek of Silence, 1992).

Ecco, lo stile di Levi risulta sentenzioso e profetico perché è solo a quest’essenza che egli si riferisce nelle sue pagine: ad essa rivolge le sue angosciose domande con la stessa drammatica disperazione con cui Giobbe rivolge le sue a Yahweh, con essa si confronta e in essa cerca le risposte.

E quando, a causa dell’orrore e della violenza – certo più incisive della tenerezza e dell’amore – questa essenza viene destata dalla sua purezza, allora si genera quello “stupore profondo” che Levi – in sympátheia con quel “destino di massa” di cui parlava Etty Hillesum – credette di sentire assieme a tutti gli altri deportati già alla stazione di Carpi, prima di affrontare la seconda parte del suo viaggio verso Auschwitz.

Uno stupore analogo a quello che, nella sua essenza, provò Jean Améry: “Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte”.

22 febbraio 2019

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Se questo è un uomo – Primo Levi