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Claudio Vercelli e la storia delle leggi razziali in Italia.
Una storia che parla al presente.

di Franco Di Giorgi

 

Saggio Di Giorgi su 1938 Francamente razzisti
Claudio Vercelli e la storia delle leggi razziali in Italia – completo

1938 Francamente razzisti1. – Con la sua ricostruzione storica delle leggi razziali antiebraiche (1938. Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia, Edizioni del Capricorno, Torino 2018) Claudio Vercelli contribuisce all’assolvimento di un duplice e difficile compito da cui ricercatori da un lato e docenti dall’altro non possono esimersi: quello di confrontarsi con la domanda tanto spontanea e ovvia quanto fondamentale e inaggirabile – perché proprio contro gli Ebrei? – e quello di verificare se o in che misura esistano continuità e riprese nel presente di quell’aberrante evento storico che senza alcun dubbio ha trovato terreno fertile nel nostro Paese ottanta anni fa.

Certo, non solo nel nostro Paese.

Qualche anno prima, infatti, nel 1935 erano state varate le leggi di Norimberga, ma l’Italia rivendicava una prospettiva autonoma in tal senso, a partire perlomeno dalla conquista dell’impero. È quanto afferma peraltro Mussolini nel suo discorso tenuto a Trieste il 18 settembre 1938.

D’altronde è storicamente altrettanto accertato che a fronte di tutto l’ampio corpo della Christenheit europea (per ricordare il titolo di un famoso saggio di Novalis) è proprio nella penisola italiana che si daranno le condizioni politiche (essenzialmente il fascismo) che renderanno possibile il formarsi di una sorta di sarkónphalon, di escrescenza carnosa attorno all’ombelico, le cui metastasi si diffonderanno rapidamente in tutte le parti di quel corpo.

Giusto e doveroso precisare subito che l’uscita di questo libro è avvenuta in coincidenza con una serie di interventi in alcuni licei di Torino e provincia previsti e programmati dallo studioso con il sostegno dell’Associazione comitato Colle del Lys.

E ciò non solo per creare una più stretta collaborazione tra università e scuola secondaria, ma anche per venire incontro agli insegnanti che in questo periodo alquanto caotico e critico vedono diminuire sempre più le ore di didattica della storia.

Non già pertanto l’istituzione scolastica in sé, con il novero dei ministri dell’istruzione ad essa incaricati, almeno in quest’ultimo ventennio, quanto piuttosto gli stessi insegnanti di storia debbono essere riconoscenti e grati per questo supporto ai ricercatori, almeno a quelli impegnati in questo fronte, come lo è certamente il professor Claudio Vercelli.

Ciò premesso, si potrebbe verosimilmente partire da questo dato immediato della realtà scolastica, da questa all’apparenza ‘banale’ decurtazione delle ore di storia nelle scuole superiori italiane per iniziare a ragionare e ad inquadrare la duplice questione storica sopra delineata.

Giacché è del tutto evidente che senza un’adeguata didattica della storia, senza avere cioè il tempo per riflettere adeguatamente sugli eventi storici, i giovani non possono comprendere né il loro presente – così profondamente radicato nel passato, non solo recente – né tanto meno il passato – la cui storia, ammonisce Vercelli, «parla al presente».

Presente nel quale, ribadiva lo stesso storico alla presentazione del suo libro al Polo ‘900, rientrano in gioco «modalità di rapporti» maturati in quel recente passato.

Seguire l’interessante e per certi aspetti sorprendente excursus storico relativo al 1938 – anno di svolta per l’Italia, sebbene un’inclinazione razziale si potesse già registrare sia, poco prima, nella conquista dell’impero, sia, all’inizio degli anni Venti, nell’italianizzazione forzata della Slovenia – consente anzitutto di capire bene le risposte in merito alla prima questione: perché proprio gli Ebrei? Perché delle leggi proprio contro gli Ebrei?

Ma oltre all’insieme delle cause e delle concause che possono spiegare le ragioni di questo strano accanimento contro il popolo ebraico, cause che rimandano alle origini della cultura ebreo-cristiana, lo spessore analitico del testo lascia intendere quanto tempo sia stato necessario per esporre in maniera così sintetica la ricostruzione che esso propone.

Il tempo è infatti un elemento necessario non solo per l’apprendimento delle tematiche storiche, ma anche per la loro necessaria assimilazione, per la loro adeguata e altrettanto imprescindibile comprensione.

Se, per le fin troppo note ragioni di carattere “sistemico”, vale a dire economico-politiche, che si concretano nella proposta didatticamente improponibile (vale a dire indecente per i docenti) dell’Alternanza scuola-lavoro; se per tali urgenze sociali, dunque, viste come la panacea capace di risolvere l’annoso problema della disoccupazione giovanile, il ministero della pubblica istruzione non vede altra soluzione che la riduzione delle ore per la didattica della storia, allora i conti tornano e sono sotto gli occhi assonnati di tutti.

E con i conti vengono al pettine inevitabilmente anche i nodi. A una continua emergenza economica e sociale fa seguito l’emergenza politica, anch’essa annosa per non dire strutturale, ed entrambe si legano e hanno comunque a che fare con l’emergenza scolastica e culturale in senso generale.

A fronte della lentezza con cui si manifestano i processi naturali, biologici e cosmici, la storia recente ci apprende che ogniqualvolta l’uomo imprime arbitrariamente in essi una certa accelerazione ne risulta sempre solo un apparente progresso. Anzi, quasi come una sorta di giusto contrappasso naturale, ne viene fuori una inevitabile regressione, non solo in senso naturale, appunto, ma soprattutto in senso etico e morale.

L’accelerazione, la velocizzazione, la crescente richiesta di performatività cibernetica che, aspirando all’annullamento del tempo, assimila l’uomo alla macchina da esso stesso approntata e programmata, non è solo nemica, diceva già Hegel, della pazienza del concetto, ma produce esiti culturali e avvenimenti storici che restano inspiegabili o quanto meno incomprensibili per l’uomo stesso. Malgrado la drammatica constatazione di simili accadimenti – di cui Auschwitz resta indubbiamente uno dei simboli più eloquenti – nelle istituzioni scolastiche che velleitariamente vivono sotto l’urgenza della velocizzazione (apparato burocratico permettendo), la richiesta della pazienza proveniente dall’essenza stessa delle discipline appare come un insensato e anacronistico elogio della lentezza.

Proprio da questa esigenza sistemica di velocizzazione che, attraverso le virtualità insite potenzialmente nella macchina, tende a fare dell’uomo quell’essere che lo stesso dio ebraico-cristiano ha creato a sua immagine e somiglianza, da questo sogno di una perfetta performatività, grazie alla quale, per parafrasare il titolo di un saggio di John Austin, il dire equivale a un fare e, viceversa, il fare equivale a un dire, ebbene proprio in questo elemento dell’alta velocità che caratterizza nella sostanza la postmodernità, possiamo cogliere il punto in cui si intersecano o il nodo in cui destinalmente si stringono il nostro presente e il recente passato relativo al tempo in cui sono maturate le condizioni per l’attuazione delle leggi razziste.

Quanto alla necessità di ridurre all’osso il tempo per le materie umanistiche, all’impellente esigenza sistemica di dedicare ad esempio alla storia solo lo stretto necessario, ossia quanto basta per conoscere più che altro quella relativa alla propria nazione, privilegiandone infondatamente gli aspetti razziali, interessanti risultano le pagine che Vercelli dedica all’«applicazione concreta delle leggi e l’epurazione antiebraica» (p. 105 e segg.).

L’allora ministro dell’istruzione, Giuseppe Bottai, fu il promotore del «processo di razzizzazione della società», il quale doveva prendere l’avvio ovviamente dalla scuola, nella quale poter cominciare a «istituire percorsi di formazione e studio ispirati alla “scientificità” del razzismo, un po’ in tutte le discipline», mossi in ciò dall’«imperativo di costituire un “uomo nuovo”, pienamente ispirato ai “valori” fascisti».

Non deve peraltro affatto sorprendere, da questa prospettiva, il poter rintracciare la medesima esigenza anti-culturale anche in alcuni passaggi del secondo capitolo del Mein Kampf, dove il futuro Führer, in merito all’istruzione dei giovani, pensava di dare priorità all’educazione fisica (alla boxe, ad esempio) e non alle altre materie, affinché, sulla scorta del Drill, del modello pedagogico prussiano, si rafforzasse in loro lo spirito d’assalto e l’anti-pacifismo, come pure il culto del silenzio e lo spirito della devozione e della fedeltà.

E ciò soprattutto perché, così veniva rimarcato il quel capitolo, se nel 1918 e nel 1921 la Germania è stata piegata, lo si è dovuto al fatto che essa ha formato troppi intellettuali.

Ecco perché bisognava aumentare le ore di ginnastica e ridurre al minino quelle relative a tutte le altre discipline. È legittimo a questo punto ricordare che uno dei tanti motivi che costituiva l’ideologia antiebraica consisteva proprio nelle indubbie qualità intellettuali degli Ebrei, le quali, secondo i nazifascisti giudeofobici, venivano messe al servizio della politica (giudeo-bolscevismo) e della finanza internazionale (demoplutocrazia).

CONTINUA …

17.01.2019

Report di un incontro alla Sede dell’Anpi di Ivrea, giovedì 6 dicembre 2018

Una riflessione del professore Di Giorgi

(Anpi libro Dalmasso Lelio Basso ) … ogni contemporaneità, compresa la nostra, mostra sempre a chiare lettere che la comprensione o l’interpretazione del presente non basta perché non serve a cambiare il modo di pensare negli uomini e a farli maturare, al fine di evitare il ricadere negli stessi errori da essi compiuti nel passato…

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Sergio Dalmasso all’ANPI di Ivrea con un libro su Lelio Basso

Franco Di Giorgi, Sergio Dalmasso, Mario Beiletti

Da sinistra: Franco Di Giorgi, Sergio Dalmasso e Mario Beiletti

Il testo che Sergio Dalmasso ha dedicato a Lelio Basso (Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star Press, Roma 2018) e che ha presentato giovedì 6 dicembre 2018 all’Anpi di Ivrea non è solo una monografia politica: è anche una biografia che, attraverso la ricostruzione della vita di un’importante figura della scena politica italiana del recente passato – dal 1921 (anno in cui il diciottenne varazzino prese la sua prima tessera socialista) al 1978 (anno della sua improvvisa morte) – parla al contempo del nostro presente prefigurando in filigrana persino l’inquietante futuro che si prospetta.

L’orizzonte storico e culturale relativo a quel periodo, a partire almeno dal primo dopoguerra, presenta infatti condizioni ed elementi che connotano anche la nostra contemporaneità.

Pur cambiando i personaggi e nonostante l’affannoso mutamento dei tempi, le problematiche che tale orizzonte disvela delineano in effetti un medesimo scenario: quello che vedrà l’insorgenza e l’affermazione del fascismo e con esso, naturalmente, pure del razzismo come suo naturale corollario; vedrà insomma l’avvio di una fase drammatica della nostra storia.

Guardare al passato, continuano a suggerirci gli storici, «serve anche a comprendere meglio il presente» (Claudio Vercelli, Francamente razzisti, Edizioni del Capricorno, Torino 2018).

Certo, è vero.

Ciò tuttavia solo in linea teorica, giacché ogni contemporaneità, compresa la nostra, mostra sempre a chiare lettere che la comprensione o l’interpretazione del presente non basta perché non serve a cambiare il modo di pensare negli uomini e a farli maturare, al fine di evitare il ricadere negli stessi errori da essi compiuti nel passato.

Il saggio monografico di Dalmasso consente altresì di apprendere il fermento oppositivo (politico e culturale) che si agitava e ribolliva, pur in tutti i suoi limiti, all’ombra del ventennio fascista.

Si trattava di un’opposizione che, malgrado la costante aspirazione alla costruzione di una solida unità delle sinistre, non era tuttavia in grado di edificare nulla, perché quel mero tentativo ricostruttivo era in realtà fondato su una profonda e insanabile ferita, quella che era stata arrecata nel corpo del socialismo italiano nel gennaio del 1921 al congresso di Livorno.

Una ferita che verrà riaperta nel 1947 da Saragat con la rottura di palazzo Barberini, a Roma, tra Psi e Psdi, e che, anche dopo quarant’anni, verrà persino ostentata versus i fratellastri del Pci da Craxi negli anni Ottanta con la “Milano da bere”.

Oggi, dopo il ventennio berlusconiano, non c’è più motivo per lottare e accapigliarsi per quell’unità delle sinistre perché non c’è neppure una sola sinistra, non c’è neppure lo spettro inquietante, l’ombra della sinistra.

Eppure di motivi per rivendicarne l’esistenza e per auspicarne la resurrezione ce ne sarebbero e come!

Oggi l’eretico Lelio Basso nella terra desolata della politica si aggirerebbe come un Don Chisciotte o come l’ibseniano Peer Gynt, di sicuro come un anacoreta.

Basso ci parla dall’interno dello stato nascente fascista – di cui ha subito a più riprese i duri contraccolpi –, ci parla dall’interno di un Paese che, a causa della sua coscienza cattolicamente intorpidita, si è entusiasmato e si è innamorato del velleitarismo fascista, il quale portava nel proprio seno la propria inclinazione al razzismo se non semitico almeno camitico, se pensiamo ai tentativi (dapprima falliti) in Africa orientale.

Ma ci parla anche nello stesso tempo della necessità di guardare religiosamente alla realtà spirituale dell’interiorità come condizione imprescindibile per cambiare le cose nella realtà esteriore attraverso la lotta di classe.

Una lotta che però non può e non potrà mai essere condotta a buon fine se la volontà non si fonda sulla fede in quella coscienza protestante a cui è assolutamente consustanziale lo spirito della libertà.

E in ciò, in questa mancata affermazione del protestantesimo in Italia, osteggiato con una dura e lunga controriforma, in questo vero e proprio “peccato originale” della storia italiana, il socialista Basso è in perfetta sintonia con l’amico liberale Piero Gobetti.

Per fortuna, però, l’Italia – ancora oggi! – non è solo quella che Alberto Moravia e Antonio Gramsci vedevano bivaccare nell’indifferenza, l’Italia che si metteva alla finestra ad aspettare e ad esultare a comando assecondando i desideri velleitari di qualcuno che amava parlare agitandosi da un balcone.

L’Italia, la migliore Italia, quella a cui oggi deve ancora continuare a guardare, è anche e soprattutto quella di Lelio Basso e di Piero Martinetti.

A un esame di filosofia morale, quest’ultimo (uno dei 12 docenti universitari che, su 1250, negò il proprio consenso al fascismo) diede il massimo dei voti al giovane venticinquenne di Varazze, perché con la sua condotta antifascista aveva saputo dimostrare che cosa intendesse in realtà Kant con l’imperativo categorico.

Ancora oggi, proprio come allora – si sappia! – l’Italia continuerà a contare sul modello di intransigenza esemplarmente fornito da questi due eretici, da questi due rappresentanti di una minoranza eroica.

Franco Di Giorgi

La foto sopra è di Rachele Chillemi

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Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico

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