I difficili anni 80 del PCI, Il Lavoratore di Trieste

Marzo 2021, Il Lavoratore di Trieste

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QUELLA GRANDE SPERANZA CHIAMATA RIFONDAZIONE

I difficili anni ’80 del PCI

Vi è chi dice che la fine del PCI dati dalla drammatica morte di Berlinguer (giugno 1984).

I suoi funerali, immensi e commossi, ci presentano un popolo, società nella società, che mai più incontreremo nei decenni successivi e vengono sempre paragonati a quelli di Togliatti (agosto 1964), simbolicamente fine di un’epoca.

Alessandro Natta

La segreteria di Alessandro Natta si presenta come di mediazione, di continuità, ma regge con difficoltà le trasformazioni sociali e culturali, l’offensiva frontale del PSI di Craxi, segni di dissenso nello stesso partito, in cui non mancano le accuse al moralismo e alla rigidità di Berlinguer, le aperture alla socialdemocrazia europea, i primi segni di volontà di superamento di nome e simbolo.

La sconfitta elettorale del 1987 riporta il PCI ai livelli degli anni ’60, prima della ondata di lotte e spinte sociali che avevano prodotto i grandi successi del biennio 1974-1976.

Occhetto segretario

Viene eletto vicesegretario Achille Occhetto che, nonostante il suo passato “di sinistra”, si caratterizza immediatamente per il “nuovismo”, per il prevalere degli elementi istituzionali su quelli sociali.

Queste caratteristiche emergono, ancora maggiormente, l’anno successivo quando Occhetto diventa segretario e imprime una forte accelerazione alle tendenze “americanizzanti” (simbolica l’attenzione mediatica alle foto in cui bacia la moglie), aprendo la segreteria a una nuova generazione.

Cornice liberal del PCI

La cornice “liberal” del nuovo partito porta a una scelta movimentista (pensiero di genere, ambiente, nonviolenza…) che supera la tradizionale attenzione alla centralità del lavoro e ai rapporti di produzione, ad una svolta storiografica che comprende un rovesciamento del giudizio sulla rivoluzione francese, una critica netta alla figura di Togliatti, ad una progressiva apertura alla socialdemocrazia.

In questo quadro, segnato da un netto tentativo di omologazione, dalla certezza che il superamento della “anomalia comunista”, potrà portare a un bipolarismo proprio degli altri Paesi europei, la caduta dei regimi dell’Europa orientale offre ad Occhetto l’occasione per bruciare le tappe.

La Bolognina

La “svolta” della Bolognina, significativamente annunciata a partigiani, attori di una storica battaglia (così come la perestrojka fu annunciata da Gorbaciov a combattenti della seconda guerra mondiale), sembra la logica conclusione di un processo avviato da tempo, ma incontra, invece, resistenze molto maggiori e al vertice e nella base (nasce l’interessante movimento degli autoconvocati).

Se qualche opposizione alla linea maggioritaria era venuta da posizioni “ingraiane” (al congresso del 1986 gli emendamenti di Ingrao e Castellina su pace e nucleare), l’unico tentativo di opposizione strutturata e nel tempo nasce dalla componente “filosovietica” o “cossuttiana” (le virgolette sono d’obbligo).

Il primo atto è del dicembre 1981, dopo il colpo di stato di Jaruzelski in Polonia e la dichiarazione di Berlinguer per il quale si è esaurita la spinta propulsiva proveniente dalla rivoluzione sovietica.

Cossutta replica: è errato porre URSS e USA sullo stesso piano e dichiarare esaurita la spinta dell’Ottobre sovietico.

Strappo di Berlinguer

Quello di Berlinguer è uno “strappo”; negli anni successivi userà l’espressione ”mutazione genetica”.

Su queste basi, nasce l’agenzia “Interstampa”, si formano nuclei consistenti in numerose federazioni, vengono presentati alcuni emendamenti al congresso nazionale del 1983, ancor maggiormente a quello del 1986, dove la componente critica lo strappo dall’URSS, la mancanza di una opzione antimperialistica, il rapporto con la socialdemocrazia.

Superamento del capitalismo

Ha un certo seguito l’emendamento che ribadisce che i comunisti operano per il superamento del capitalismo.

La strumentazione di questa area va da riviste, “Orizzonti” che vive un breve periodo, “Marxismo oggi”(dal 1987) alla Associazione culturale marxista che raccoglie grandi figure di intellettuali, emarginati dal “nuovismo” del partito.

Al congresso del 1989, per la prima volta, è presente un documento alternativo che raccoglie solamente il 4%, ma infrange l’unanimismo che ha sempre accompagnato le assisi comuniste e sindacali.

PDS e Rifondazione

Dopo la dichiarazione di Occhetto, l’opposizione nel vertice del partito è maggiore di quanto avrebbe immaginato, ma durissima è la reazione di parte della base che si sente improvvisamente privata di riferimenti, certezze.

Ancor più grave è avere appreso della decisione dalla TV e dai giornali, come testimoniano le lettere all’“Unità”:

Ho pianto tre volte, quando è morta mia madre, quando è morto Berlinguer, quando Occhetto ha detto che non dovevamo più chiamarci comunisti.”

Il PCI non si può liquidare

“Il PCI non si può liquidare: per noi comunisti convinti, il comunismo è una fede radicata nella storia e se ci togliete la falce e il martello, noi lavoratori a chi potremo mai fare riferimento?”

“Cambiare nome è come cambiare pelle, corpo, cuore.”

Occhetto chiede un congresso straordinario che si svolge a Bologna nel marzo 1990:

66% dei consensi alla mozione maggioritaria che apre il processo costituente di una nuova formazione politica (la “cosa”), 30,6% alla mozione Natta, Ingrao, Tortorella, 3,4% a quella cossuttiana.

Tutti i presupposti su cui scommette la “svolta” risultano erronei:

  • nella nuova formazione politica entreranno molte forze esterne, creando un partito di sinistra plurale;

  • in Italia, si formerà un bipolarismo tra una destra moderata e liberale e un centrosinistra progressista;

  • nel mondo, la fine del bipolarismo aprirà un periodo di pace che permetterà di affrontare i nodi sociali e ambientali (è noto il riferimento alla foresta dell’Amazzonia).

L’opposizione ricorda come nessuno di questi punti si stia realizzando ma, nonostante questo, il processo non si arresta. 150.000 iscritt* sfiduciati, non rinnovano la tessera e non partecipano ai congressi.

Cossutta parla di “scissione silenziosa”

Il congresso di scioglimento del partito, a 70 anni dalla fondazione, si svolge a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991.

Nuovo nome: Partito democratico della sinistra (PDS) e nuovo simbolo: una grande quercia alla base del quale vi è il tradizionale logo del PCI.

La minoranza decide di unificarsi e usa il significativo titolo di Rifondazione comunista, ma è penalizzata dai tanti abbandoni e dalla scelta per la maggioranza di Tortorella, Ingrao… che decidono di aderire al PDS (“Vivere nel gorgo”).

Qualche seguito alla mozione, intermedia, di Antonio Bassolino.

Nascita di Rifondazione

Al termine del congresso, prima che venga proclamato lo scioglimento del PCI e venuti meno gli appelli all’unità e alla federazione, novanta delegat* su 1260 lasciano il salone principale, si riuniscono in un’aula laterale, colma di bandiere del vecchio PCI, dove Garavini, Cossutta, Serri, Libertini, Salvato annunciano la nascita del Movimento per la Rifondazione comunista.

Gli stessi, con Guido Cappelloni e Bianca Bracci Torsi, confermano, davanti a notaio, con atto pubblico, la continuità del partito comunista.

Nessuno scommetterebbe sulle dimensioni che questa formazione assumerà.

Il gruppo dirigente PDS guarda quasi con favore il distacco dell’ingombrante ala nostalgica e filosovietica.

La rottura immediata serve a negare la filiazione diretta tra PCI e PDS, a far leva sull’elemento simbolico, sul patriottismo di partito contrapposto al discorso sull’unità, sulla fiducia nel gruppo dirigente, sulla volontà di mantenere unita una comunità, usato fortemente dal gruppo dirigente.

Rifondazione nata dal popolo comunista

Rifondazione nasce sulla spinta e la volontà di un popolo comunista non omologato, su esigenze anche diverse, dal ricostruire il partito di Togliatti e Berlinguer alla necessità di ricercare direttive e metodi diversi, capaci di declinare le spinte di classe con le grandi emergenze (ambientalista, pacifista, di genere, altermondialista…) e si trova, da subito, a doversi misurare con una situazione modificata in peggio da:

– crisi frontale del movimento comunista ed esaurimento della stessa socialdemocrazia;

– crisi del paradigma antifascista e della discriminante verso il MSI, a livello culturale, politico, storiografico, di senso comune;

– crollo del sistema della “prima repubblica”, con gli scandali di Tangentopoli;

– sostituzione del sistema elettorale maggioritario a quello proporzionale, giudicato responsabile di ogni difficoltà e di ogni male.

Le sfide di Rifondazione

Rifondazione deve navigare tra queste difficoltà e questi problemi inediti, a iniziare dal tentato colpo di stato in Russia, nell’agosto 1991, sul quale si registrano posizioni divergenti nel gruppo dirigente, mediate da Garavini, sino alla diversa interpretazione dei rapporti con le altre formazioni di sinistra (Verdi, Rete, sinistra PDS) e dell’identità di partito.

Alcuni contrasti emergeranno nel congresso costitutivo (Roma, dicembre 1991), ma torneranno nella gestione successiva che pure produrrà risultati positivi, dalle elezioni del 1992 (5,6% alla Camera, 6,5% al Senato), alle amministrative del 1992, al tesseramento (superato il numero di 120.00 adesioni, sino alla caduta di Garavini – luglio 1993).

Questa prima fase, pur nella sua eterogeneità, resta una delle 17 migliori di Rifondazione:

volontà di confrontarsi, di capire, fine delle certezze, desiderio di ricominciare, di non arrendersi,

certezza di poter offrire alla sinistra, non solamente italiana, una forza politica non minoritaria, legata alla propria storia, ma non dogmatica.

Possiamo dire: Ci abbiamo provato.

Nonostante tutto, proviamoci ancora. (fine della prima parte)

Articolo pubblicato nel marzo 2021 in Il Lavoratore di Trieste.

Sergio Dalmasso

Approfondimenti

Per approfondire sulla storia di Rifondazione Comunista (1991-2001) fai il download quaderno CIPEC numero 31 che tratta del primo decennio di Rifondazione e anche della fine del PCI:

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Intervista a Sergio Dalmasso Lelio Basso

Sergio Gavino Contu di “per Riconquistare l’Italia” intervista Sergio Dalmasso, professore, scrittore e storico del movimento operaio, Lelio Basso video.
Parleremo di Lelio Basso attraverso il suo pensiero e le sue idee: un grande protagonista della storia del ’900 in Italia.
A Lelio Basso si deve, tra le altre cose, la grande divulgazione delle opere di Rosa Luxemburg in Italia.
Fu uno dei padri della Costituzione Repubblicana, autore e coautore in particolare degli art. 3 e 49.
Lelio Basso – la ragione militante: vita ed opere di un socialista eretico” di Sergio Dalmasso ed. Red Star Press, Roma 2018.
Download “Primo capitolo del libro Lelio Basso” Capitolo1-Lelio-Basso-La-ragione-militante.pdf – Scaricato 40905 volte – 308,09 KB
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Lelio Basso video e copertina libro
e-mail : info@lacostituzione.org
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La fede di un laico, in Alfonso Botti (a cura), Storia ed esperienza religiosa, Urbino, QuattroVenti,
2005.
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Lelio Basso: un maestro scomodo
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Alcune informazioni da wikipedia su Lelio Basso

Da WIKIPEDIA: “Basso era uno dei fascinatori del Psi. Aveva scritto un libro di successo, Il Principe senza scettro, e si atteggiava a Lenin italiano (cui un poco somigliava) ricalcandone le mosse. Era un oratore formidabile, capace di battute e di ironia a non finire: una voce morbida, flessuosa, un po’ femminile che persuadeva e incantava. Le donne lo adoravano e lui adorava le donne.

La vita di Lelio Basso fu una miscela di attività e ricerca intellettuale, unita alla ricerca di uno strumento politico efficiente, il tutto su scala internazionale.

In qualità di esperto ed interprete del lavoro di Marx, egli adottò un approccio originale nella sua rielaborazione della visione del socialismo e attinse a diverse linee di pensiero che venivano dalla sfera del pensiero democratico, nel significato più ampio possibile del termine (la tradizione democratica francese, il “socialismo accademico” tedesco, il pensiero socialista italiano e gli Austromarxisti).

Durante il suo internamento egli lesse le opere di Rosa Luxemburg e lavorò poi instancabilmente, per promuovere una consapevolezza critica del suo pensiero in Italia.

Una approfondita ricostruzione del suo itinerario politico è stata fornita dallo storico Giancarlo Monina, anche grazie alle testimonianze dei parenti e alla documentazione disponibile presso la Fondazione Basso.

Governo indecente

 

Governo Draghi indecente e altro

Governo Draghi indecente e altro

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È stato formato un governo indecente, in cui ogni partito ha tradito il proprio elettorato:

– Mai faremo alleanze con i partiti e apriremo il parlamento come una scatola di tonno. Mai con il partito di Bibbiano. (5S)

– Mai con la sinistra “comunista” (sic!) e con l’Europa delle banche.

– Votateci per fare argine alla destra eversiva e per sconfiggere Berlusconi e Salvini (PD).

– Votateci per colorare di progressismo e di verde la sinistra (LEU).

È la più grande operazione di TRASFORMISMO, di inganno dell’elettorato. È la più grande operazione, legata all’indegno meccanismo elettorale, che fa dire: “La politica è una cosa sporca”, “sono tutt* eguali”.

Aumenteranno la disaffezione, il disinteresse (perché andare a votare? Perché partecipare?) e il successo della donna madre cristiana e fascista che si è smarcata dal coro generale.

La stessa scelta dei/delle ministr* fa temere il peggio per il pubblico impiego, per la scuola, sempre più privatizzata, per la sanità, sempre più aziendalizzata. Il mezzo milione di posti di lavoro persi in un anno rischia di moltiplicarsi.

L’UNITA’ di AZIONE di forze politiche, sindacali, associative, di singole persone che non si sentono omologate dal pensiero unico è più che mai indispensabile. Un INCONTRO on line, misto… nella forma che si vorrà definire, non può essere ulteriormente rimandato. Sarebbe opportuno un forte segnale nazionale, ma iniziamo dalle situazioni locali.

2) L’indegno pronunciamento (tra l’altro sgrammaticato e incoerente) del comune di Genova sull’anagrafe antifascista e anticomunista merita una risposta non solo con comunicati e articoli (ricordo sul “Secolo XIX l’articolo di Antonio Gibelli, la lettera del sindaco di Stazzema, l’intervista ad Angelo d’Orsi), ma richiederebbe, con i limiti imposti dalla zona arancione, un PRESIDIO davanti a Tursi.

La cosa deve essere preparata seriamente, ma è dovere collettivo organizzarla. Chi batte il primo colpo?

3) sabato 13, a Cogoleto manifestazione di protesta contro il saluto romano di tre consiglieri, nel corso di un recente consiglio comunale. Folta partecipazione. Persone arrivate anche da qualche comune vicino. Bandiere. Rabbia, sconcerto a cui si somma anche la delusione per il voto del consiglio comunale di Genova (maggioranza di destra, astenuto (sic!) il PD sull’anagrafe antifascista e anticomunista. Breve saluto della presidente locale dell’ANPI, breve discorso del sindaco, intervento del presidente provinciale dell’ANPI che, al termine dell’intervento dice: “la manifestazione è chiusa”.

A parte la sorpresa, per la manifestazione più breve della storia, si nota come la volontà di partecipazione, la rabbia, la delusione, la volontà di trovare risposte di tante perone rimanga delusa.

Timore che qualcun* ricordi la indecorosa astensione al consiglio di Genova? Preoccupazione che qualcun* ricordi come “la sinistra” sia al governo con una destra indegna e indecorosa? Timore di interventi “estremistici”?

In ogni caso, ricordiamo ancora come l’estrema destra non si affronti con discorsi più o meno retorici, ma solamente con politiche che affrontino i grandi nodi sociali (disoccupazione, precarietà, scuola laica per tutt*, questione ambientale, pace …).

Frenare o bloccare il bisogno di partecipazione e di protagonismo di centinaia di persone non è certamente la risposta migliore.

Genova, 13 febbraio 2021, ore 20:00

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Sergio Dalmasso

Qualche sospetto

QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

Franco Di Giorgi

Nella storia della politica la strenua intransigenza rivoluzionaria e riformista, l’amore per la coerenza a tutti i costi, pur non volendo, ha spesso consegnato, in modi, tempi e contesti diversi, il popolo di una nazione alle forze reazionarie.

Si pensi alla fine che, a partire dal 1794, il montagnardo Robespierre, l’Incorruttibile, ha fatto fare alla Repubblica francese.

Oppure, alle conseguenze che ebbe la scissione del partito socialista a Livorno nel 1921.

O ancora, più vicino a noi, la rottura di Bertinotti dal governo Prodi nel 1998.

Eppure oggi in Italia tutti possono vedere che si può ottenere il medesimo risultato anche con il contrario dell’intransigenza, cioè con l’inestirpabile trasformismo che, nel caso in specie, è anche impudico opportunismo politico.

E ciò fino al punto di indurre un’intera classe politica ad annientare sé stessa, fino all’auto-interdizione, alla resa, a un plateale harakiri.

Tuttavia, qui da noi, culturalmente poco avvezzi al senso del tragico, un Sansone non potrebbe morire mai con tutti i filistei, schiacciato sotto le colonne del palazzo del potere.

Quanto accade e si ripete con una certa frequenza dalle nostre parti, soprattutto a causa di una pessima legge elettorale, induce piuttosto a pensare non già al possente eroe giudeo, ma a figure viscide come quella dello Jago shakespeariano, capaci di muoversi a loro agio nei meandri di leggi come quella, capaci come un ragno di tessere trame in grado di suscitare sentimenti deleteri e distruttivi, tali che, com’è noto, condurranno alla morte sia Otello sia l’innocente moglie di questi Desdemona.

Ma proviamo a ripercorrere per grandi linee la vicenda, prendendo spunto da alcuni momenti significativi della travagliatissima gestione del secondo governo Conte, momenti che destano qualche legittimo sospetto.

Già al momento del suo concepimento, la maggioranza governativa si costituisce anzitutto grazie all’appoggio decisivo di Italia Viva.

In tal modo per il segretario di questo piccolo partito si profila l’irripetibile occasione tanto attesa di usare l’arma del ricatto per poter finalmente appagare la sete di vendetta del suo ego per le battaglie politiche precedentemente perdute.

In virtù di questo grimaldello, egli avanzava al governo richieste e critiche che, per quanto bizzarre, faceva discendere dal suo personale senso di responsabilità.

La sicumera che sgomitando ostentava destreggiandosi impettito in queste continue e diverse richieste lasciava supporre che in sé egli maturasse un’idea delirante, quella secondo la quale così come aveva fatto nascere il governo allo stesso modo non avrebbe avuto scrupolo alcuno nel farlo cadere.

E così è stato.

Il secondo sospetto riguarda l’opposizione. Anch’essa non si limitava più a porre critiche legittime al governo, ma si rifiutava di collaborare nella difficile gestione della pandemia, ostacolandone sistematicamente ogni provvedimento e assumendo platealmente posizioni persino negazioniste.

A fronte di quanto accadeva nelle altre nazioni, qui da noi i sovranisti impedivano l’azione di governo, sicché, ad esempio, quando si parlava di chiusura loro erano per l’apertura e viceversa.

In tal modo il governo doveva far fronte a due critiche contemporaneamente, una interna e una esterna.

Critiche che col passare del tempo assumevano curiosamente un’analoga forma se non addirittura la stessa tattica ostruzionistica.

Infatti, pur derivando da due fazioni opposte, queste due critiche ben presto finirono con il sommarsi, formando un fronte unico e assumendo la comune strategia tesa a far cadere il governo.

Come se entrambe avessero ben chiaro in mente l’obiettivo che intendevano raggiungere, avessero già in serbo una nuova figura di primo ministro.

E tutto ciò nel frattempo facendo finta che la crisi pandemica, con tutto il suo pesante carico giornaliero di morti, non esistesse.

Contrapposizione politica che finì inevitabilmente con il riflettersi non solo sul dolente fronte critico del rapporto Stato-Regioni, ma anche sul fronte epidemiologico, con la dialettica semiseria tra virologi ottimisti a favore dell’apertura e infettivologi pessimisti che propendevano per la chiusura, creando così ancora più incertezza nei cittadini.

Ma i sospetti cominciano a prendere corpo e a rendersi visibili dopo che il presidente ancora in carica Conte riesce a convincere l’Europa a concedere all’Italia un cospicuo fondo finanziario di 209 miliardi di euro per fronteggiare le crisi e per pianificare la ripartenza del Paese.

Solo dopo aver ottenuto questo fondo – cosa che a nessuno dei politici italiani e tanto meno ai leader delle due opposte opposizioni sarebbe mai riuscita, nemmeno nei sogni –, i due Mattei secondo il loro schema tattico, cominciarono di concerto a martellare, a chiedere altro, ancora e sempre altro: ora ad esempio volevano in coro il Mes.

E così, non potendolo evidentemente fare l’opposizione esterna – la quale, visti i sondaggi sul voto, continua imperterrita a chiedere elezioni anticipate –, ecco che a dare la spallata decisiva al governo è l’opposizione interna, nella persona del suo leader, che nella conferenza stampa del 13 gennaio annuncia il ritiro dei suoi ministri dal governo, aprendo così di fatto la crisi di governo.

Il 18 e il 19 l’attenzione dell’intero Paese viene pertanto deviata dall’emergenza Covid all’emergenza politica.

In effetti le due crisi si sommano, la pressione sull’Italia si raddoppia, assume un grave peso.

A causa dunque di una mossa troppo pericolosa per non suscitare qualche sospetto sulla sua arbitrarietà, compiuta da qualcuno la cui sicumera lascia sospettare che non si muovesse affatto al buio, l’Italia sta insomma per scivolare verso qualcosa di incerto (almeno per il popolo italiano), ritrovandosi dinanzi a problemi decisivi che ancora una volta dovranno essere affrontati e risolti dal Presidente della Repubblica, a un anno esatto dalla fine del suo mandato.

Due sono a questo punto i fattori che hanno reso evidenti lo scopo e la tattica assunta dalle due opposizioni, elementi che ormai vengono fatti propri dalla quasi maggioranza dei deputati e dei senatori: uno linguistico e uno, appunto, tattico.

Tranne le forze politiche che sostenevano il governo e qualche altra piccola componente parlamentare, il resto dei politici ha perlopiù adottato un linguaggio duro ed offensivo contro la figura del Presidente del Consiglio (definito “avvocato” in senso sminuente e spregiativo):

un linguaggio usato come un martello al solo scopo di demolirne la resistenza.

Caduto lui, a forza di martellare con parole sempre più pesanti, sarebbe caduto tutto il governo: ecco la tattica strategica.

Sicché, accecati dall’ira e rassicurati dalla loro vittoria dopo le dimissioni di Conte il 26 gennaio (l’esplorazione del Presidente della Camera Fico, dal 30 gennaio al 2 febbraio, sarà solo una proforma prevista dal protocollo), era inconcepibile da loro una pur minima idea di riconoscenza per un governo che, commettendo inevitabili errori, ha dovuto sobbarcarsi la fatica e il lavoro “sporco” che l’inatteso tzunami della pandemia ha comportato.

Ma a questo punto non si può non rilevare una contraddizione nell’azione dei demolitori.

Infatti, pur essendo per un governo “forte”, sostenuti in ciò sia dai media che di parte della intellighentia critica, essi vedevano nei Dpcm uno strumento di accentramento politico, l’espressione di un potere personale che non teneva conto del Parlamento.

E ciò dimostra ancora una volta che gli oppositori trasformavano ogni cosa in pretesto per chiudere definitivamente i conti con il Presidente del Consiglio in carica e con il governo tutto.

A proposito del sostegno dei media, questa fretta nel mettere fine alla coalizione di governo, nonché la sicumera e la sfrontatezza verbale degli oppositori risultavano a volte comprensibili dal fatto che ogni tanto, mentre il governo arrancava sotto il peso dell’impegno gravoso, qualche giornalista, con un sorrisetto presupponente, evocava il nome di Mario Draghi come di un possibile e auspicabile salvatore della patria, come di un condottiero valoroso che da qualche tempo attendeva alle porte della città per intervenire con il suo esercito nel caso fosse necessario.

Ora, a cose fatte, a crisi avvenuta, queste voci giornalistiche si possono leggere come un preannuncio, seppur vago, di quanto accadrà il 13 gennaio.

Come se tra queste voci dei media, la conferenza stampa del leader di Italia Viva e l’incarico conferito il 3 febbraio dal capo dello Stato all’ex presidente della Banca Centrale Europea vi fosse un legame sottile e quasi invisibile: un preaccordo, un “piano B” una volta fallito il “piano A” riguardante il possibile terzo governo Conte.

Come se il destino di quest’ultimo fosse simile a quello di Giobbe, perché, come si è detto, molti elementi lasciano sospettare che tale destino fosse già stato previsto nelle sfere iperuranie.

Scenario questo in cui Renzi appare come il Satana di turno, usato anche in questo caso da Yahweh o dai Signori dell’alta finanza per mettere alla prova non solo il governo giallo-rosso, ma anche per verificare la tempra dei singoli esseri umani, per giocare insomma con le loro vite, la cui qualità esistenziale scompare ogni sera dietro l’annuncio quantitativo del numero dei morti per Covid (il cui totale ammonta ormai a quasi cento mila).

Al contrario dell’Avversario biblico, che non si arroga il merito di aver messo in crisi l’Uzita e con lui l’intera città di Uz, Renzi lo rivendica e come, dicendo in giro (persino in Arabia Saudita) che lui quella crisi l’ha suscitata non per sé e per le sue mire personali, ma per senso di responsabilità, per il bene del Paese.

Eppure dalla sua cieca fiducia nei confronti di tutto quello che fin qui il Salvatore si è limitato solo a sussurrare, risulta ben evidente che l’opzione Draghi soddisfaceva sia lui che l’altro Matteo, in quanto, ognuno per il proprio interesse, pensano vivamente di ottenere, con le loro esibite adulazioni, un importante incarico nel prossimo governo.

Nello splendore celeste di cui questo Professore pare circonfuso essi e tutti i loro amici oppositori cercano una luce in cui poter estinguere il buio in cui si agitano gesticolando umidicci; nella sua imperturbabile placidità agognano il mare in cui annegare la loro irrefrenabile irrequietezza; nella sua inarrivabile maturità essi vorrebbero nascondere la loro evidente Unmündigkeit, la loro immaturità; nella sua estatica beatitudine sognano persi un’oasi in cui ricercare la loro felicità perduta e la loro libertà ceduta.

Per questo motivo, alla fine della loro affannosa corsa, nonostante l’apparizione di santa Dorotea o di san Maturino, forse troveranno ad attenderli le bolge concentriche dell’ottavo o del nono cerchio dell’Inferno, dove Dante colloca i fraudolenti verso chi si fida, i traditori e gli arroganti.

Proprio per questo, ammoniva Primo Levi, si deve sempre diffidare dei “leader carismatici”, specie di quelli che hanno facilità di parola.

Essi, diceva in un intervento del 1986, pensando al duce e al Führer, «possedevano un potere segreto di seduzione che non derivava dalla credibilità o dalla fondatezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo in cui le dicevano, dalla loro eloquenza, abilità istrionica, forse innata, forse acquisita pazientemente con l’esercizio.

Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse e in generale si trattava di idee aberranti o sciocche o crudeli. Eppure erano osannati e seguiti fino alla morte da milioni di fedeli».

Ivrea, 11 febbraio 2021

Mario Draghi Presidente del consiglio italiano fino all'ottobre del 2022.

Dichiarazione del Prof Mario Draghi al termine del colloqui con il Presidente Sergio Mattarella,al Quirinale
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Download articolo di Franco Di Giorgi intitolato Qualche sospetto nell’attuale crisi politica:
QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

Quaderno 68

 

È online il quaderno Cipec numero 68 che raccoglie tutti gli interventi al Consiglio regionale del Piemonte di Sergio Dalmasso dal 2007 al 2010.

 

DOWNLOAD QUADERNO 68

Download “Quaderno CIPEC N. 68 (Interventi al Consiglio regionale del Piemonte di Sergio Dalmasso parte seconda 2007-2010)” Quaderno-CIPEC-Numero-68.pdf – Scaricato 19173 volte – 858,96 KB

Il cartaceo sarà dato alle stampe nel secondo semestre del prossimo anno.

Il quaderno serve come documentazione.

Un intervento del Quaderno N. 68

Legislatura n. VIII – Seduta n. 322 del 09/05/08 – DALMASSO Sergio – Argomento: Commemorazioni

Commemorazione dell’on. Aldo Moro

Velocemente, come il Consigliere Leo.

C’è stata una trasmissione televisiva, qualche giorno fa, in cui a giovani di vent’anni è stato chiesto se sapevano chi fosse Aldo Moro.

Leggo due risposte testuali: “Mah, è quello che fotografava i vip, quello dello scandalo” – Lele Mora – “Non so, non sono mica comunista io e in classe dormivo quando si parlava di questo”.

È chiaro che fatti accaduti trent’anni fa siano lontani dai giovani come poteva essere la guerra di Spagna per me, cronologicamente.

Al tempo stesso, è molto più vero, rispetto ad anni fa, che se i giovani vivono appiattiti sull’oggi (come dice un grande storico marxista inglese) è estremamente difficile far presente loro i fatti passati.

Quindi chiederei anch’io – adesso non mi era neanche venuto in mente ma senza fare robe bipartisan, è tanto bravo il Consigliere Leo, ecc.

evitiamo questo – se in una prossima riunione del Comitato che è stato ricordato non si possa ragionare e pensare a qualche iniziativa, non tanto la processione nelle scuole, quanto qualche iniziativa significativa e collettiva, che cerchi di mettere in luce i fatti in modo chiaro, evitando per favore, spiegazioni unilaterali.

Gli anni ’70 non sono stati solamente violenza, ma sono stati anche altro: il diritto di famiglia, la legge Basaglia e mille altri aspetti di questo tipo.

Credo che sarebbe utile non solo per Torino, ma per la regione intera.

 

Sergio Dalmasso

IL LAVORATORE

Pubblicato nel periodico di Trieste Il Lavoratore il mio scritto sul volume Lucio LIBERTINI.


In “Il Lavoratore”, dicembre 2020, Trieste.

Sergio Dalmasso, LUCIO LIBERTINI, lungo viaggio nella sinistra italiana, Milano, ed. Punto rosso, 2020.

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Nei suoi ultimi anni, Lucio Libertini (Catania 1922- Roma 1993) aveva intenzione di scrivere la propria biografia politica, Lungo viaggio nella sinistra italiana.Libro di Sergio DALMASSO su Lucio Libertini

I pressanti impegni politici (tutt* ricordano la sua generosità) e la morte improvvisa (agosto 1993) hanno impedito che il testo andasse oltre le prime pagine ed un schema, scritto a mano.

Il mio libro non è una tradizionale biografia. Mancano totalmente dati sulla vita personale (ambiente famigliare, studi, adolescenza, gioventù…).

Inoltre, la chiusura di biblioteche ed archivi, causa Covid, mi ha impedito, al momento della stesura definitiva, di accedere ad alcuni documenti che avrei voluto consultare.

Ho tentato di scrivere una “storia” interamente politica seguendo lo schema e l’impostazione che lo stesso Libertini avrebbe voluto offrire.

Libertini ha fatto parte, dal 1944, di molte formazioni. La prima è, per brevissimo tempo, quella dei demolaburisti (Bonomi, Ruini) di cui parlava con molta reticenza e da cui esce, dopo pochi mesi, con i giovani, vicini alle posizioni, europeiste e federaliste, del socialista Eugenio Colorni.

Quindi, nel PSI, la corrente di Iniziativa socialista, che tenta con mille difficoltà e contraddizioni, di non appiattirsi sulle due opzioni maggioritarie, quella filosovietica e frontista e quella tradizionalmente riformista.

L’equilibrio è difficile, contraddittorio, proprio di giovani privi di esperienza politica e schiacciati dalla morsa della bipolarizzazione del mondo e, conseguentemente, degli schieramenti politici nazionali.

L’approdo è la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) nel tentativo di costruzione di una forza socialista autonoma fra i due blocchi.

La scelta governista e atlantista di Saragat e il suo progressivo abbandono dell’ipotesi di “socialismo dei ceti medi” e di un “umanesimo marxista”, proprio del suo pensiero negli anni ’30, produce una diaspora nel gruppo di Iniziativa.

Libertini, dopo una battaglia interna che tenta di rilanciare una ipotesi autonoma, ma che è sconfitta dall’apparato socialdemocratico, lascia (1949) il nuovo partito.

Dal 1951 al 1957, la partecipazione all’Unione socialisti indipendenti (USI), la formazione di Magnani e Cucchi, usciti dal PCI sulle posizioni di una “via nazionale”, considerata tradizionalmente una sorta di eresia “titina”, ma capace di posizioni originali sulla politica internazionale, l’autonomia sindacale, il rifiuto dei blocchi.

Nel 1957, dopo i fatti del 1956 (denuncia del culto di Stalin, repressione dei moti ungheresi …) l’USI confluisce nel PSI.

E’ la scelta per la sinistra del partito, contraria all’accordo di governo con la DC, ma soprattutto del rapporto organico con Raniero Panzieri che produce la migliore stagione della rivista “Mondo operaio” e le Sette tesi sul controllo operaio,

il documento più organico di una sinistra diversa da quella maggioritaria (Togliatti e Nenni), che vede nella centralità operaia e nell’”uscita a sinistra” dallo stalinismo, il cardine per la costruzione dell’egemonia del movimento operaio,

in una fase di profonda modificazione della struttura economica nazionale (inserimento dell’Italia nel capitalismo avanzato, crescita industriale, migrazione interna…).

Le sue capacità giornalistiche lo portano ad essere direttore del periodico della sinistra “Mondo nuovo” (lo era stato anche del settimanale dell’USI, “Risorgimento socialista”).

L’ingresso del PSI nei governi di centro-sinistra produce una nuova scissione e la formazione del PSIUP, di cui è fondatore, dirigente e in cui assume posizioni di sinistra, critiche verso le opzioni maggioritarie (Due strategie), sia sulle ipotesi nazionali (critica frontale al centro-sinistra,

alla socialdemocratizzazione, ai progressivi spostamenti del PCI), sia su quelle internazionali (critica al socialismo realizzato, attenzione alle esperienze rivoluzionarie nel “terzo mondo”).

Alla scomparsa di questo (1972), la scelta è per il PCI, formazione che maggiormente esprime istanze operaie e popolari.

Non rinnega le esperienze passate, ma ne coglie criticamente, il minoritarismo, l’inefficacia.

Dopo un ostracismo iniziale, in cui paga le posizioni eterodosse lungamente espresse, è vice-presidente della Giunta regionale piemontese, parlamentare, responsabile nazionale della commissione trasporti.

Negli anni dell’”unità nazionale” è continua la sua preoccupazione di un progressivo distacco rispetto alle istanze di base, ai bisogni popolari che non possono essere immolati sull’altare degli accordi politici.

Tra il 1989 e il 1991, l’opposizione alle scelte di Occhetto (la Bolognina) e la fondazione di Rifondazione.
E’ il primo capogruppo al Senato, instancabile organizzatore.

Può sembrare contraddittorio il suo avvicinamento a Cossutta, nello scontro interno che porta alla sostituzione, come segretario, di Sergio Garavini (luglio 1993).

Al di là delle banali accuse di “scissionismo”, di “globe trotter” della politica”, stupidamente presenti in molti commenti seguiti alla sua scomparsa e colpevolmente al centro di un comizio di Occhetto ai cancelli della FIAT (1992),

Libertini ha sempre rivendicato una linearità e una coerenza, segnata dal rifiuto dei blocchi, dalla critica allo stalinismo, dalla ricerca di una sinistra popolare ed autonoma.

Rifondazione esprimeva la continuità di un impegno, la certezza nel futuro della prospettiva comunista, oggi minoritaria,

ma storicamente vincente, la possibilità di ricostruire un rapporto di massa con i grandi settori popolari, davanti al ritorno della destra e alla semplificazione autoritaria portata dal sistema elettorale maggioritario.

Il libro ricostruisce questo percorso, i suoi molti scritti, “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose,

anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra, spesso emarginata (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris…),

sconfitta, ma capace di contributi e di analisi sulla realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

In appendice, i suoi scritti sulla rivista “La Sinistra” (1966-1967) che sarà oggetto di un mio prossimo opuscolo e una testimonianza di Luigi Vinci.

Attraverso una figura lineare e coerente, il testo ripercorre mezzo secolo della nostra storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.

Non è un caso che, in un supplemento di “Liberazione”, a lui dedicato, poco dopo la sua morte, il grande storico Enzo Santarelli, ne ripercorresse soprattutto le pagine meno note, ormai perse nel tempo, forse quelle, che pur non maggioritarie, meglio delineano questa personalità che il mio libro tenta di riportare all’attenzione

Spero che i mesi prossimi permettano presentazioni, discussioni, critiche, ad oggi impedite dal Covid, su queste pagine.

Sergio Dalmasso

 

Indice dei nomi

 

Addio Lidia Menapace

di Sergio Dalmasso

Ho incontrato, per la prima volta Lidia Menapace a Roma, nel luglio 1970, ad una delle prime assemblee nazionali del Manifesto.

Eravamo partiti da Genova, viaggiando di notte (le cuccette erano un lusso impossibile) in treno, Giacomo Casarino ed io, arrivando a Roma, morti di sonno, in una giornata caldissima di luglio.

Morta Lidia Menapace 7 dicembre 2020Ci era stata consegnata la prima stesura delle “Tesi sul comunismo”, in una assemblea che si sarebbe dovuta svolgere a piazza del Grillo, ma data la partecipazione, si svolse a Montesacro.

Lidia era la più simpatica, la più disponibile fra i/le dirigenti che, a noi ventenni, sembravano di altra età, generazione, formazione e incutevano rispetto (Natoli, Rossanda…).

Quando si telefonava a Roma per chiedere che qualcun* partecipasse a dibattiti, incontri… arrivava sempre Lidia, puntualissima, precisissima.

Decine di riunioni della commissione scuola (ricordate le critiche ai “decreti Malfatti”?, poi il referendum per difendere il divorzio.

Ancora lei, dappertutto.

Ai temi usuali, il Manifesto aggiungeva tematiche insolite e originali, riprendendo riflessione dell’UDI sulla famiglia, il ruolo della donna; Lidia, per la sua formazione cattolica e democristiana era anche tramite con comunità di base, settori allora attivissimi su questo e altri temi.

Rimase stupita quando ad Alba (Cuneo), la sala prenotata si dimostrò troppo piccola per la partecipazione enorme e fummo messi in una palestra. Lo racconto sul “manifesto”.

Poi l’ennesima scissione, DP e PdUP, il suo ruolo di consigliera regionale nel Lazio, i suoi articoli e libri, le migliaia di assemblee, incontri su scuola, pace/guerra, il no al servizio militare per le donne, l’originalità e centralità della tematica di genere che spesso, a sinistra, veniva ridotta a servizi sociali, maternità, asili…

Nei primi anni di questo secolo, l’avvicinamento e poi l’iscrizione a Rifondazione. Incontri dappertutto, pur in una situazione difficilissima, partecipazione a convegni, direttorA (non voleva il termine direttrice che le ricordava le scuole elementari) della prima “Su la testa,” rivista mensile, consigliera provinciale (dopo due consigli regionali e il Senato!) a Novara, città in cui era nata.

A più di 90 anni era sempre in moto, in treno, dalla sua Bolzano nell’Italia intera per collettivi di donne, associazioni pacifiste, ambientaliste, per l’ANPI di cui era dirigente nazionale: “Sono ex insegnante, ex senatrice, ma sempre partigiana”.

Tre aneddoti:

– 2004. Abbiamo un incontro pubblico con lei, a Cuneo. Leggo su “Liberazione” della morte del marito. Le scrivo dicendole che possiamo annullarlo, che non si faccia obblighi con noi. Risposta: “Arriverò. Alla mia età, se ci si ferma, non si riparte più”.

– 2010: per le elezioni regionali piemontesi, nostra assemblea a Bra, città sede di uno dei più attivi e capaci circoli del vecchio PdUP. Era convinta che tant* sarebbero venuti a rivederla, salutarla, dopo una militanza comune, di anni. Neppure un*. Il deserto. Era rimasta molto addolorata e colpita. Non uso aggettivi e tristi considerazioni antropologiche sul settarismo di “sinistra”.

– 2016. per il compleanno di Rosa Luxemburg, a Cuneo, viene fondato un circolo Arci che prende il suo nome. Mi viene chiesta una relazione su vita ed opere. Al dibattito partecipa anche Lidia (per me un onore).

Al termine mi dice di mettere per scritto quanto ho detto. Lei avrebbe aggiunto un suo testo e ne sarebbe nato un libro, a quattro mani, per l’editore Manni. Altro onore per me. Scrivo, diligentemente il mio compitino. Il suo testo non arriverà mai, nonostante, lettere, e-mail, telefonate…

Dopo due anni e mezzo alla “critica roditrice del computer”, “Una donna chiamata rivoluzione” uscirà presso la Redstarpress che ancora ringrazio.

Mesi fa se ne è andata Rossana Rossanda. Prima di lei Natoli, Pintor, Magri, vinto anche dalla sconfitta politica e da un mondo in cui non si riconosceva più. È il nostro passato che ci lascia, in una realtà sempre più drammatica.

Lidia Menapace negli anni Sessanta

Essere stato amico di Lidia e avere condiviso tratti di percorso con lei è stato per me (e non solo) molto bello ed importante.

Con affetto.

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L’attualità del pensiero di Gramsci

 Intervengono Sergio Dalmasso e Giordano Bruschi.

Moderatrice Cecilia Balbi.

Intervento iniziale di Pino Cosentino.

Locandina Attualità del pensiero di Gramsci

L’Attualità del pensiero di Gramsci, temi del primo incontro:

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso

“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi

Video su L’attualità del pensiero di Gramsci:

Ciclo di incontri promosso da APS Consorzio Zenzero, Attac Genova, ANPI Sezione Genova S. Fruttuoso, Goodmorning Genova, Il Ce.Sto.

Primo incontro, martedì 20 ottobre 2020.

In diretta dal circolo ARCI Zenzero di Genova.

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso storico del movimento operaio.
“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi Partigiano e insignito della medaglia il Grifo d’oro massima onorificenza della città di Genova

Introduce Cecilia Balbi del Circolo Zenzero.

Tecnico audio Stefano Gualtieri

Tecnico video Dimitri Colombo

Conferenza trasmessa in diretta streaming il 20 ottobre 2020 su Facebook da Goodmorning Genova.

“Il consiglio comunale di Genova, minoranza e maggioranza – esclusi i consiglieri di Fratelli D’Italia che hanno deciso di votare contro – ha detto sì alla proposta di assegnare il Grifo d’Oro, massima onorificenza cittadina, a Giordano Bruschi.

Il partigiano “Giotto”, che presto compirà 95 anni, è conosciuto come memoria storica della resistenza e del novecento genovese, ma anche per la sua esperienza politica, sempre a sinistra, nel Pci, per cui fu consigliere comunale, e poi come scrittore, ambientalista e come anima dei comitati della Val Bisagno.

Sull’assegnazione del Grifo a Bruschi il plauso della Camera del Lavoro di Genova e del segretario Igor Magni.

Magni: “Grande soddisfazione per questo importante riconoscimento a Bruschi che con il suo impegno di militanza, esercitato sempre, anche nei momenti più difficili, rappresenta un esempio per tutti noi.

Un abbraccio fraterno da tutte e tutti noi della Cgil di Genova”. ”

Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Sferini su Lucio Libertini

Download articol di Marco Sferini su Libertini

Lucio Libertini: “Una cosa è rifondarsi, altra è abiurare”

Sferini foto Lucio Libertini

su La sinistra quotidiana

 

Sferini su Lucio Libertini – 27 anni fa mi trovavo in Trentino, in vacanza.

Dal televisore dell’albergo un mesto Tg2 diede la notizia in poche parole, mostrando questa foto di Lucio Libertini.

Era morto un socialista vero che non si era mai mosso più di tanto dalla posizione in cui aveva fatto crescere e maturare i suoi ideali.

“Sono i partiti che sono cambiati attorno a me”.

Ed infatti Lucio si riferiva alla mutazione del PSI, del PCI in PDS e alla sua personale scelta di rimanere invece convintamente comunista.

Lui riconosceva – scrisse – il diritto a Napolitano di dirsi socialista riformista.

Chiedeva che gli venisse riconosciuto altrettanto il diritto di dirsi ed essere nell’Italia del 1991 ancora, liberamente comunista.

Libero dalle catene in cui il comunismo era stato imprigionato dall’esperienza dei paesi dell’Est Europa, dell’Urss stessa.

Libero di rifondare pratica e pensiero dei comunisti nel Paese che aveva conosciuto per primo il fascismo e che i comunisti avevano contribuito in larga parte a sconfiggere con la Resistenza.

Grazie anche a lui, il Partito della Rifondazione Comunista può oggi rivendicare una sua vena libertaria e una ispirazione già allora antistalinista, costretta indubbiamente a convivere con posizioni molto contrastanti tra loro.

La dialettica del resto era e rimane non solo il motore della storia e dell’evoluzione umana, ma anche la dinamica con cui le tesi diventano sintesi.

Lucio scomparve mentre stava lavorando proprio alle tesi del congresso nazionale del Partito.

Nel settembre di quell’anno la consueta grande manifestazione a Roma dove convergevano oltre 300.000 compagne e compagni, ricordo Lucio in tanti interventi.

Mi mancò molto in quell’agosto, che ricordo con piacere per altri motivi, la figura di Lucio Libertini.

Come mi manca ancora oggi.

Perché era un compagno onesto moralmente e intellettualmente parlando.

Andai a cercare “Liberazione” a Trento, perché a Faedo non si trovava, la lessi freneticamente e la custodii nella copia della settimana precedente che invece avevo comperato a Savona.

Ogni tanto la riprendo in mano, così come alcuni scritti che reputo importanti: tra gli altri spiccano le “Sette tesi sul controllo operaio”.

Se posso consigliare alcune letture su Libertini, direi che sono un buonissima ricostruzione del suo pensiero quello uscito nell’autunno del 1993, edito da “Liberazione” stessa (“Lucio Libertini, 50 anni nella storia della sinistra”) oramai credo introvabile se non presso qualche circolo o federazione provinciale del PRC, e quello scritto dal caro amico e compagno Sergio Dalmasso, “Lucio Libertini, lungo viaggio nella sinistra italiana”, che potete acquistare anche su Amazon.

Libro su Libertini di Dalmasso

MARCO SFERINI

7 agosto 2020

***

Perché un movimento per la rifondazione comunista

Per comprendere la lotta che Libertini visse, come tante decine di migliaia di compagne e di compagni vissero, in quella transizione storica tra PCI e Partito Democratico della Sinistra, dopo il crollo del Socialismo reale sovietico e dei suoi paesi satelliti, riportiamo di seguito un intervento scritto per “l’Unità”, il 14 dicembre 1990:

Nei congressi sentiamo ripetere frequentemente un ritornello banale: il nome non conta, andiamo al di là del sì e del no.

E, a ben vedere, una affermazione inconsistente o pretestuosa, perché ciò che è in discussione non è un nome, ma, con un nome, una identità culturale e politica, e ogni contenuto, ogni programma, ha la sua radice in una identità.

Non a caso, o per capriccio, da anni è in corso una massiccia campagna dei grandi mezzi di informazione, diretta ad indurci ad abbandonare il nome comunista e la nostra identità di comunisti italiani, perché così si tagliano gli ancoraggi ideali e si diviene più facilmente preda di una deriva verso destra.

In realtà la questione di fondo che è in discussione e che investe l’intera sinistra europea (ma, ovviamente, in modo più diretto il Pci) e sulla quale occorre pronunziarsi con nettezza, riguarda un interrogativo centrale: se la vicenda di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni la vittoria definitiva del capitalismo, che diviene un limite insuperabile della storia umana, seppellendo la questione del socialismo; o se invece la tragica degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che comunque ha inciso sulla storia del mondo, e le nuove gigantesche contraddizioni del capitalismo, a scala planetaria, ripropongano in termini nuovi la questione del socialismo e dell’orizzonte ideale, assai più lontano, del comunismo.

Molti di noi hanno rifiutato da tempo (chi scrive da sempre) di definire socialisti e comunisti quei regimi pur se ne riconoscevamo alcune storiche realizzazioni; ed è singolare che essendo stato per questo definito nel passato un revisionista e quasi un traditore, ora mi si voglia fare apparire un «conservatore» stalinista perché rifiuto di seppellire il socialismo sotto le macerie dell’Est.

Ecco, dunque, la questione.

Una questione che la proposta di Occhetto scioglie in una direzione ben precisa, perché da essa è assente ogni riferimento al comunismo ed al socialismo: perché la suffragano confusi discorsi su di una prospettiva che sarebbe «al di là del socialismo»; perché la identificano le dichiarazioni esplicitamente anticomuniste e antisocialiste di numerosi esponenti della cosiddetta sinistra sommersa, pronti ad essere cooptati nel gruppo dirigente del nuovo partito; perché il modello organizzativo che si propone ha caratteri sin troppo significativi, di ispirazione democratico-radicale.

Non a caso essa ha suscitato l’opposizione di Bassolino, che si è accorto, sia pur tardi, dei contenuti moderati dell’operazione, e la riserva, destinata a diventare dissenso esplicito, dell’area socialista-riformista, che da solco del movimento socialista europeo non intende uscire.

Tutto ciò – la perdita della identità e del riferimento al socialismo – spiega il processo di disfacimento che la «svolta» ha indotto sul piano organizzativo ed elettorale.

Una crisi ci sarebbe comunque stata in ragione della vicenda storica che attraversiamo, ed una rifondazione era comunque necessaria, ma la «svolta», per i suoi contenuti, trasforma la crisi in disfatta.

Proprio perché abolire una identità sostituendola con una fuga nel vuoto, mette in causa gli ideali che ci hanno fatto stare e lottare insieme, fuggendo dalla questione dei contenuti del socialismo, invece di affrontarla.

Ecco, dunque, perché considero con interesse la posizione, sia pure ancora ambigua, di Bassolino e di altri compagni, lo stesso emergere di un’area socialista riformista, e la posizione di tanti compagni che, pur accettando il PDS, non vorrebbero rinunciare al socialismo.

E perché considero la rifondazione comunista non una mozione, ma un impegno culturale e politico di lunga lena, attorno alla quale costruire un movimento, non ristretto all’ambito organizzativo del PCI attuale (dal quale è fuoriuscita una vasta area di comunisti e che ha perso il rapporto con le nuove generazioni).

Siamo in campo per evitare che il congresso segni una svolta irreversibile nel senso che ho indicato.

Ma siamo in campo, ancor di più, per porre in Italia la questione dell’esistenza di una forza politica e sociale che, partendo dalle grandi e crescenti contraddizioni del capitalismo – la questione Nord-Sud, la questione ambientale, la questione di classe, i processi di emarginazione, l’intreccio con la grande questione femminile – riproponga in termini nuovi e avanzati la questione del socialismo.

Siamo in campo per evitare che la democrazia sia azzoppata dal rifluire nel disimpegno e nella astensione di tanta parte del mondo del lavoro privato di vera rappresentanza, siamo in campo per costruire con le nuove generazioni una prospettiva nuova, respingendo l’omologazione ai modelli imperanti di una società dominata da una concentrazione senza precedenti del potere.

Sappiamo di indicare una via non facile e aspra, oggi controcorrente.

Una forza politica che non abbia la capacità di stare nelle ragioni di fondo della storia, e si pieghi a mode e condizionamenti esterni, va fatalmente alla deriva. Una cosa è rifondarsi, altra cosa è abiurare.

LUCIO LIBERTINI

Perché un movimento per la rifondazione comunista
l’Unità, 14 dicembre 1990