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LA SINISTRA

Quando c’era La Sinistra di Diego Giachetti

Spesso gli storici sono portati a scegliere determinati argomenti di studio, rispetto ad altri, perché mossi consapevolmente o meno da ragioni attinenti alla propria esperienza di vita, tanto è vero che si è coniata la dizione di “storia come autobiografia”.

Raccontando di fatti specifici, collocati nelle loro circostanze storiche, nello spirito del tempo, lo storico, sovente restio a produrre memoria, ci parla alla lontana di se stesso, di eventi vissuti e formativi.

Lo confessa, con discrezione, Sergio Dalmasso (La Sinistra, una stagione troppo breve,

Edizioni Punto Rosso, Milano 2021) quando ricorda che ai tempi in cui era studente liceale aspettava l’uscita del mensile La Sinistra con interesse, ancora consapevole oggi che quella lettura gli è stata molto utile, come probabilmente lo fu a quel tempo per un’area di militanti politici in quel particolare momento storico di fine anni Sessanta, caratterizzato da importanti avvenimenti nel mondo e in Italia.

A spingere La Sinistra c’era una giovane casa editrice, la Samonà e Savelli (poi solo Savelli); essa favorì la discussione politica e teorica dando spazio, accanto alla ristampa di classici di Marx, Engels, Lenin, Trotsky, ad autori non solo di area trotskista ma di diverse sensibilità politiche e culturali del movimento operaio e della sinistra rivoluzionaria, pubblicando a caldo anche testi di Fidel Castro e Che Guevara.

La Sinistra fu un azzeccato “prodotto commerciale”.

Subito mille abbonati, destinati in breve tempo a diventare 2600, secondo quanto si leggeva nel resoconto comparso sull’ultimo numero del mensile del novembre-dicembre 1967.

Le vendite oscillavano tra le 7-8 mila copie, specie in occasione di numeri dedicati al Vietnam e all’America Latina.

Si trattava di dati che reggevano bene il confronto con altre riviste di partito come il settimanale comunista Rinascita, Mondo Operaio del Partito socialista e Mondo Nuovo del Partito socialista di unità proletaria (Psiup).

Prima rivista mensile (di questa si occupa l’autore), dall’ottobre 1966 al dicembre 1967,

poi settimanale, cessa le pubblicazioni nella primavera del 1968.

I temi dominanti della prima serie sono la guerra nel Vietnam, la situazione nei paesi dell’America Latina, la giovane rivoluzione cubana, la lotta di classe negli Stati Uniti e il black power, il contrasto Cina-Unione Sovietica, la rivoluzione culturale, il Medio Oriente.

Rispetto alla politica interna primeggiano le analisi critiche sulla partecipazione socialista al governo e la relativa programmazione economica, sul ruolo e la strategia dei sindacati nella lotta operaia, sul nuovo Psiup.

Sul piano teorico-storico studi su Gramsci e il dissenso nel Pci negli anni Trenta, su Lenin e l’imperialismo.

Vi collaborano esponenti del dissenso ingraiano maturato nel PCI, del Psiup, della sinistra sindacale Cgil, della sezione italiana della IV Internazionale, inizialmente i più convinti promotori della rivista, sia Savelli che Samonà ne fanno parte, nonché alcuni intellettuali e studiosi di fama internazionale.

La dirige Lucio Colletti, che per molti anni aveva militato nel Pci, ed era noto come teorico marxista rigoroso, di cui Dalmasso traccia impietosamente la sua successiva parabola declinante, che lo porterà, come Giulio Savelli d’altronde, nelle file berlusconiane.

Mal accolta dai comunisti, l’uscita del primo numero provoca la radiazione dal partito dell’editore Giulio Savelli, la rivista si propone di rilanciare il discorso unitario di una sinistra operaia e di classe, nella prospettiva di favorire l’incontro tra tutte le forze deluse dalle vie riformiste al socialismo di matrice socialista e comunista.

Un generoso tentativo di inserire una “terza via” politica e culturale rispetto all’operaismo e al marxismo-leninismo importato dalla Cina maoista.

Si ricava quindi un suo spazio in quella che a posteriori verrà chiamata la stagione delle riviste,

iniziata nella metà degli anni Cinquanta e in piena fioritura negli anni Sessanta, ricchi di dibattito culturale, politico, di tensioni a livello nazionale e internazionale, di rimessa in discussione di certezze e dogmi ingessati dagli anni della Guerra fredda.

Un “disgelo” di domande, di creatività, di proposte e di propositi facilitati dalla speranza di vivere in un mondo che sarebbe presto cambiato, rinnovandosi e ponendo fine a vecchie diseguaglianze, oppressioni, guerre e violenze.

Si trattò di una stagione intensa ma breve, di un’esperienza di confronto politico e di elaborazione che non trovò seguito nel biennio delle lotte studentesche e operaie di lì a venire, quando collaboratori e lettori di quella rivista si dispersero nel mare del nascente movimento studentesco per poi riaggregarsi nel variegato e vivacissimo arcipelago dei “gruppi” della nuova sinistra rivoluzionaria.

Forse questa è una delle ragioni per cui, tra le riviste di quella stagione, essa è la meno ricordata.

Benvenuto quindi lo strappo dall’oblio di Sergio Dalmasso.

4 maggio 2021

DIEGO GIACHETTI

Fonte: dalla parte del torto

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AVANGUARDIA OPERAIA

 

Volevamo cambiare il mondo, Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977

In “La Sinistra in Zona / CostituzioneBeniComuni”, Finalmente un libro su Avanguardia Operaia, 4 aprile 2021.

Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977, (a cura di) Roberto Borcio e Matteo Pucciarelli, ed. Mimesis, 302 p., 2020.

Download “Avanguardia Operaia (Scheda di Sergio Dalmasso)”

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E’ numerosa, anche se non numerosissima, la pubblicistica sulle formazioni della nuova sinistra (o estrema sinistra o sinistra extraparlamentare) italiana.

Numerosi i testi su Lotta Continua, indubbiamente la formazione che ha maggiormente espresso, in positivo ed in negativo lo spirito del periodo storico, non pochi, soprattutto presso Derive e approdi, quelli sull’operaismo che molt* considerano la matrice più originale del neo-marxismo italiano.

Sull’arcipelago marxista-leninisita, gli studi e le testimonianze sono piuttosto datati, propri della fortuna del maoismo in Italia e nel mondo occidentale, legata alle diverse interpretazioni della rivoluzione culturale e del conflitto URSS-Cina.

Avanguardia Operaia recensione di Sergio Dalmasso
Anche su PdUP e manifesto, le formazioni che mantenevano un maggiore legame con matrici della sinistra storica e maggioritaria (ricordate i dibattiti sulla storia del PCI,

su Togliatti e il togliattismo, la singolarità e radicalità della sinistra socialista, le polemiche sull’esistenza o meno di un filo rosso?)

i testi più noti risalgono a decenni or sono, ma l’interesse per la figura di Lucio Magri (da Il sarto di Ulm, ad Alla ricerca di un altro comunismo,

sino alla recente biografia, ad opera di Simone Oggionni), oltre al cinquantesimo del quotidiano hanno riportato alla luce alcuni temi e passaggi.

Su Avanguardia operaia, una delle maggiori formazioni dell’area e certo tra le più significative ed interessanti, mancava uno studio di insieme.

Esistevano solamente qualche breve passaggio nel testo di Giuseppe Vettori La sinistra extraparlamentare in Italia (1973) e qualche memoria, oltre all’interessante studio sui CUB torinesi, frutto di testimonianze personali e di racconti di tante vite che confluivano contemporaneamente nella Torino, allora operaia.

Volevamo cambiare il mondo copre, anche se parzialmente, questo vuoto.

Il merito è di Giovanna Moruzzi, moglie di uno dei fondatori di A.O, Michele Randazzo, da anni scomparso, e di Fabrizio Billi che cura l’Archivio Marco Pezzi di Bologna ed ha all’attivo numerosi studi,

oltre che di Roberto Biorcio, insegnante a Milano-Bicocca e di Matteo Pucciarelli, giornalista di “Repubblica” che hanno curato il testo.

Il metodo scelto ricalca quello della storia orale e della conricerca ed è il prodotto di 110 interviste (tutte consultabili nell’archivio Pezzi),

raccolte tra ex militanti e dirigenti del movimento, con una opportuna scelta “scientifica” che ha reso il campione particolarmente realistico (età, formazione, famiglia, occupazione…).

Nascita di Avanguardia operaia

Avanguardia operaia nasce a Milano nel 1967, fra un gruppo legato alla IV Internazionale (Gorla, Vinci) e avanguardie (si diceva così) di alcune fabbriche.

Autonomizzatosi dalla IV Internazionale, che, nel 1968, conosce in Italia una crisi frontale, A.O. inizia a costruire i primi CUB nei luoghi di lavoro, cresce nelle facoltà scientifiche (alla Statale l’egemonia è di Capanna),

dà vita ad una rivista, inizia i collegamenti con formazioni locali affini, nell’ipotesi di costruire una struttura nazionale che si richiami al marxismo rivoluzionario, in modo non dogmatico alla rivoluzione culturale, che rifiuti lo stalinismo

(da qui i dissensi con il movimento della statale e con il MLS) e lo spontaneismo di Lotta Continua.

La formazione ha una progressiva crescita, coprendo quasi tutto il territorio nazionale grazie alla confluenza di tante formazioni locali ed allargando il quadro dirigente

(Corvisieri, Rieser, Pugliese…) divenendo una delle tre maggiori formazioni dell’area (con L.C. E il PdUP-manifesto).

Nel 1974 nasce il “Quotidiano dei lavoratori” (vivrà circa cinque anni) che si somma agli altri due (in una breve fase anche più) quotidiani dell’estrema sinistra.

In questo periodo, si ha una oggettiva modificazione della linea politica.

Se nei primi anni si ha una concezione astensionistica, se I CUB sono letti come contrapposti ai sindacati e la crescita avviene in contrapposizione alle altre formazioni politiche dell’area, ora si opera una svolta per cui si parla di area della rivoluzione,

con altre formazioni anche non espressamente leniniste e si aderisce criticamente ai sindacati (CGIL, ma nella particolare situazione del momento, anche alla CISL).

Da questa scelta deriva la presentazione alle elezioni del 1975, in alcune regioni con il PdUP (sigla Democrazia Proletaria), in altre non in alleanza, con la sigla Democrazia operaia.

È l’anno della grande crescita del PCI, della conquista delle “giunte rosse”.

Le liste di nuova sinistra si collocano al 2% circa.

Significativo il dato di Milano, con l’elezione di tre consiglieri comunali, frutto della grande presenza sul territorio.

L’anno successivo, alle politiche, la sigla D.P. raccoglie tutta la nuova sinistra, ma il risultato è modesto (1,5%).

L’unità della formazione va in frantumi, davanti alla modificazione della realtà, alla caduta di speranze e di prospettive.

A.O. si divide: la “sinistra”, con parte del PdUP forma Democrazia Proletaria.

La minoranza confluisce nel PdUP (segretario Magri).

I meriti del testo

Le 300 pagine del libro sono dense e ricche, anche se diseguali. La scelta è stata quella di non ripercorrere la storia in ordine cronologico, ma di analizzare i singoli temi.

Dopo l’introduzione dei due curatori e l’analisi di Biorcio circa i rapporti fra l’organizzazione, la nuova sinistra e i movimenti,

Franco Calamida analizza la vicenda dei CUB, come nuova forma di democrazia (diretta) e di partecipazione dei lavoratori, Marco Paolini le lotte studentesche,

Grazia Longoni il movimento delle donne e il suo impatto nell’organizzazione (conflittuale, anche se meno esplosivo che in Lotta Continua), nella messa in discussione della centralità del conflitto capitale/lavoro.

Ha suscitato grande interesse l’analisi di Vincenzo Vita sulla politica culturale, di cui fu giovanissimo responsabile nazionale.

Sorprende, oggi, leggere i nomi dei/delle tant* artist*, personaggi dello spettacolo e della cultura che hanno lavorato nella commissione cultura e nelle iniziative sul tema (dalla famiglia Rossellini ad Ottavia Piccolo a Lino Del Fra…).

I due fratelli Madricardo trattano della politica sul territorio (case, affitti, bollette, carovita, costruzione dell’Unione Inquilini) e dell’intervento politico nelle forze armate che riprende la storica tradizione socialista e antimilitarista, tesa a combattere il condizionamento, la distruzione della personalità, l’autoritarismo.

Il tema più delicato è quello dell’antifascismo e del servizio d’ordine, affidato a Paolo Miggiano.

Il suo saggio ha prodotto dibattito e interpretazioni anche differenziate.

Ferita ancora aperta è la morte del fascista Sergio Ramelli (si veda, di molti anni successivo, il convegno, anche autocritico, di D.P.)

e il violentismo dei servizi d’ordine, indotto e dalle violenze poliziesche e dalla presenza fascista (da S. Babila ai tanti militanti di sinistra uccisi).

Da analizzare resta il rapporto fra gruppo dirigente e un relativo autonomizzarsi del servizio d’ordine (è stato sciolto dopo il caso Ramelli?)

Il libro non pretende di esaurire il tema di una storia esaustiva dell’organizzazione. Il limite di una carenza del quadro complessivo in cui si inseriscono i fatti raccontati è ovvio.

Così, alcuni saggi (i lavoratori studenti…) non hanno trovato spazio.

Forse altri sudi potranno coprire le parziali lacune. Ancora, non vi è una analisi delle riviste (per anni, per un vecchio principio “egualitario”, gli scritti compaiono senza firma) e del quotidiano.

Il taglio di storia orale ricostruisce il quadro di una organizzazione priva di leaderismi, di quel narcisismo tanto addebitato (ricordo l’analisi di Massimo Bontempelli).

Ha il merito di dare una immagine reale della stagione sessantottesca, spesso ridotto con una voluta operazione storiografico-politica a pura violenza (la formula degli anni di piombo è l’unica usata mediaticamente.

Parla, invece, di un fenomeno di massa, della presa di coscienza di masse giovanili, della riscossa della classe operaia,

piegata per decenni, della politicizzazione di ceti professionali tradizionalmente conservatori (gli anni di Magistratura democratica, di Psichiatria democratica, del movimento nelle caserme, nella polizia, tra i credenti…).

Parla della crescita del movimento delle donne che chiede l’uscita da una concezione economicistica della politica.

Ricorda che gli anni ’70 non sono solamente quelli dei terrorismi (la pubblicistica dimentica sempre quello di destra e il ruolo dello Stato e del quadro internazionale), ma vedono grandi riforme: ente regionale, divorzio, Statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, “legge Basaglia”, sanità, aborto,.. e che anche i parziali spostamenti politici (crescita del PCI, giunte di sinistra) sono il prodotto della grande spinta sociale e culturale che in Italia è data dal “68 lungo”.

Ancora ne emerge il quadro di un gruppo molto attento all’organizzazione, alla formazione, allo studio, alla teoria, al confronto anche netto, con altre formazioni, sui “fondamentali”, di un impegno spesso totalizzante.

Non credo sia un caso se, tra le tante (troppe) formazioni della nuova sinistra è quella che meno è stata percorsa da pentitismi, carrierismi dei/delle tant* finit* dalla certezza nella rivoluzione a scelte opportunistiche (evito un triste elenco anche parziale).

Il libro offre anche uno spaccato “sociologico”.

L’età dei/delle militanti intervistat* era “allora” molto bassa, dai 20 ai 25 anni, e dai 25 ai 30, a dimostrazione di una politicizzazione molto veloce.

Le famiglie di provenienza erano in maggioranza operaie o piccolo borghesi. Se forte era la presenza di genitori comunisti, fortissima è la matrice iniziale cattolica che vede una rapidissima e radicale trasformazione.

Un lavoro di cui non possiamo che essere grati a chi lo ha pensato, voluto, costruito con un lavoro certosino (110 interviste).

Sarebbe opportuno che i mille filoni in cui si è divisa una storia così significativa usassero questi strumenti per una discussione collettiva, per una riflessione sulle forme di democrazia di base, del tutto in antitesi con i leaderismi populistici di oggi.

La storia, in parte ancora da approfondire dell’Organizzazione comunista Avanguardia operaia merita conoscenza, studio e riflessione.

Sergio Dalmasso

Emergenze Castigo

La tempesta perfetta delle emergenze come castigo

di Franco Di Giorgi

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«Non so quello che mi aspetta né quello che mi accadrà, dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi, essi riflette­ranno, e anch’io. Ma il più urgente è guarirli; io li difendo come posso, ecco. […] se l’ordine del mondo è rego­lato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace» (il dottor Rieux ne La peste di A. Camus (1947), tr. it. di B. Del Fabbro, Bompiani, Milano 1964, XIIª ed., pp. 121-124).

I

Prendo spunto dall’articolo di Marco Revelli (In medio stat virus, in volerelaluna, 11.3.2020), in cui si dice che se in Italia abbiamo solo 5.000 posti in rianimazione, rispetto ad altri paesi europei che ne hanno il quadruplo se non il quintuplo, ciò deriva da precise scelte politiche, e più precisamente da quelle che «hanno portato in dieci anni a negare 37 miliardi dovuti alla sanità e a tagliare 70.000 posti letto chiudendo quasi 800 reparti». Tagli che, come si sa, si sono dovuti praticare a causa della spending review resasi necessaria con la crisi finanziario-economica del 2008.

Chiaro. Ma se è in parte a questi tagli e ad un tale causa che si debbono in definitiva le evidenti difficoltà e le inaudite conseguenze che (dopo i Cinesi) noi Italiani stiamo subendo con la pandemia del Coronavirus, esiti che lo stesso studioso delinea nel suo contributo azzardando addirittura un confronto con la Selekcja di Auschwitz, non è forse agli stessi tagli e alle medesime cause che si debbono anche gli effetti visibilmente nefasti anche nel settore dell’istruzione e dell’educazione? Certo, non c’è paragone tra un effetto e l’altro quanto a pericolosità e forse non sarebbe neppure opportuno farne in momenti catastrofici come l’attuale. È tuttavia indubbio perlomeno che entrambe hanno la loro causa nella decisione di affrontare in quel modo quanto meno poco lungimirante la spending review.

Pur essendo pressati dall’emergenza virus, non bisognerebbe infatti dimenti-care che essa ha nel frattempo messo a tacere un’altra emergenza, quella contro cui, prima dell’abbattersi del Covid-19, non solo l’Italia ma l’Europa intera stava cercando di opporsi: l’affermazione dell’estrema destra, stimolata tra l’altro da un’ulteriore emergenza, quella dei profughi siriani espulsi dal governo turco. Si tratta di quella stessa destra che, a partire almeno dal 2015, con la questione della Grexit, continua ancora a mettersi in luce a Lesbo, là dove è stato detto «finisce l’Europa» (cfr. l’articolo di Annalisa Camilli A Lesbo finisce l’Europa, in volerelaluna, 5.3.2020).

Cosa c’entrano i tagli alla scuola con il neofascismo? C’entrano e come! Perché il fascismo in Italia, dice ad esempio Christian Raimo nel suo interessante lavoro (Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme, Milano 2018), sembra essere diventato quasi una moda, una posa, un modo d’essere e di comportarsi, non solo tra i millennials, tra i giovani dell’ultima generazione. E questo, avverte dal suo canto Luciano Canfora, ossia «Il fatto che giovani e giovanissimi, nelle nostre scuole – pur dopo lo sforzo illustrativo e commemorativo di ricorrenze capitali (da ultimo l’LXXX delle “leggi razziali”) –, si proclamino orgogliosamente “fascisti” non è una febbricola passeggera di cui disinteressarsi» (Fermare l’odio, Laterza, Bari 2019). Ora, il fatto che poco sappiano di storia, non dipende certo da loro. Non c’è dubbio, infatti, che da almeno una ventina d’anni, la scuola è visibilmente sotto attacco, sotto una specie di subdolo assedio da parte del «sovranismo nero», un assalto che «passa», dice lo storico, «attraverso la cosiddetta “autonomia”».

Insomma, se da un lato le conseguenze dei tagli alla sanità si notano soprattutto oggi, come dei dolorosi nodi al pettine, con le difficoltà incontrate dagli ospedali italiani per fronteggiare l’emergenza virus, dall’altro lato le conseguenze dei tagli alla scuola (meno 7,4 miliardi nel 2007, meno 10 miliardi tra il 2008 e il 2012, meno 4 miliardi nel 2019), e quindi dei mancati investimenti nel campo educativo e culturale in senso lato, si notano nella generale precarizzazione dell’insegnamento, nell’opzionalità dello studio, nel totale smantellamento del comparto scuola. In effetti, col passare degli anni, a partire dalla riforma Berlinguer, le scuole sono vieppiù diventate dei comodi Commercial Park Study Center, ossia Centri di Assistenza o di Accoglienza con l’Opzione allo Studio. Qui, in ultima analisi, anche a causa del taglio delle ore in alcune discipline formative come la storia, le conseguenze si registrano in una formazione e in una preparazione altrettanto incerte e poco strutturate dei giovani. Il metodo dell’e-learning, della didattica a distanza – impostosi in questi giorni a causa del pericolo della diffusione del virus nelle scuole, ma prefigurata già una quarantina di anni fa da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna, 1979), rientra anch’esso in questa tendenza smaterializzante e ipervirtualizzante, in questo progetto di “liquidazione” della scuola. Sicché se era già difficile, anche con la compresenza di docenti, testimoni e storici, riuscire a insegnare ad esempio la Resistenza o la Deportazione, ancora più difficile se non impossibile lo sarà attraverso una piattaforma didattica. E così il cerchio, come si vede, si chiude. Tout se tient.

Ciò consente pertanto di dedurre che anche quella dell’odio razziale, proprio come quella del Coronavirus, non è una semplice e normale febbriciattola da prendere sotto gamba. A fronte di questa tempesta perfetta, in cui le emergenze si sommano anziché elidersi, al fondo di tutte queste urgenze resta una domanda, dice Domenico Gallo: «una civiltà che precipita un popolo di profughi nell’area dei sommersi, ha le risorse morali per salvarsi dal virus del pipistrello?» (cfr. La doppia epidemia, in volerelaluna 6.3.2020). Una domanda che trova una risposta e una conferma altrettanto pessimistica in una frase lapidaria di un superstite della Shoah, una sentenza che fa un po’ da sintesi a tutte quelle emergenze: «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (Ka-Tzetnik 135633, La fenice venuta dal Lager, Mondadori, Milano 1969).

II

Comunque sia, il Coronavirus rappresenta una netta smentita delle convinzioni razziste o sovraniste, perché si sta prendendo dolorosamente coscienza del fatto che il pericolo non giunge più soltanto da un particolare “altro”, da una particolare etnia o anche da uno “strano” tipo di essere umano, ma da ogni essere umano, divenuto potenziale portatore del virus, potenziale untore. Potrebbe provenire quindi da ogni “straniero”. Ma il medesimo batterio sta cancellando inesorabilmente anche l’idea stessa, la categoria mentale non solo di straniero o di “forestiero”, ma anche di “frontiera” o di “muro” dietro cui fino a ieri era possibile limitare (anche dietro lauto compenso) gli eventuali effetti indesiderati della sua semplice presenza. Giacché dinanzi al Covid-19 si è non solo tutti uguali, ma si è diventati anche “stranieri a se stessi”. Non siamo più infatti quelli che credevamo di essere: siamo “altro” da noi stessi, “altro” da come eravamo. Per certi versi, se pensiamo a tutto il personale sanitario, più solidali come il dottor Rieux, più veri, più pudichi, e per altri versi, comunque, anche più egoisti a causa dell’inestirpabile istinto di conservazione. Forse in ogni caso migliori di come ritenevamo di essere. Ma – domanda – si può essere migliori e più solidali solo di fronte a una pandemia? Non possiamo esserlo anche senza o prima della pandemia o prima di una guerra? Questo tipo di predisposizione mi sembra rimetta sul tappeto una questione formativa e culturale fondamentale che spesso resta inevasa.

Proprio nel senso di quell’eguaglianza, si può altresì affermare che siamo in tutta evidenza di fronte a una pandemia, ossia a un contagio di portata universale: un banale microbo, un microrganismo semplice ed elementare dispone di una epidemicità planetaria, capace di contaminare potenzialmente tutta quanta (pan) la popolazione (demos) del mondo. Esso assimila nella potenzialità contagiante. Non affratella ancora nell’amore, ma lo fa almeno nella possibilità della morte. E ci ricorda che noi, come tutti gli esseri viventi, le apparteniamo, apparteniamo alla morte, quasi nello stesso modo arcano in cui il popolo di Israele apparteneva a Yahweh. Come Dio, infatti, crea l’uomo attraverso l’adamàh, la terra e il fango, nello stesso modo noi discendiamo dalla morte, cioè dall’inorganico, a cui ritorniamo, perché vi apparteniamo, misteriosamente, enigmaticamente, magmaticamente.

Non solo. Grazie a questo germe stiamo altresì divenendo consapevoli del fatto che il pericolo non giunge solo dall’uomo in generale, dall’uomo in quanto tale, ma anche dal mondo che esso ha fin qui gestito e predisposto, nonché da tutti gli oggetti che, avendoli prodotti e nominati, li ha con ciò stesso contagiati. Non ci resta, così, che gestire e toccare noi stessi, non senza però esserci per bene ripuliti le mani con detergenti che, peraltro, non certo a tutti, ma per taluni risultano anche nocivi. Ora scopriamo insomma che anche noi, in quanto appunto uomini, siamo contagiosi a noi stessi, costituiamo un pericolo per noi medesimi.

Anche perché il mondo ci si è ridotto paurosamente attorno a noi e siamo obbligati a vedercela con noi stessi, a lottare, chiusi in una cella come tanti Giacobbe con noi stessi più che contro Dio. Siamo costretti, cioè, a un duro e concreto solipsismo, vissuto però come un castigo, come una palla al piede, specie per noi postmoderni, educati a vivere sempre “lontano” da noi stessi, con la mente “altrove”, a far passare il tempo nutrendo sogni e utopie, a trovare sempre qualcosa da fare e con cui trastullarci, “divertirci”, divergere comunque da noi stessi. Ah, il tempo! Per tutto quello che dovevamo fare prima del passaggio del virus il tempo non ci bastava mai: vivevamo sempre di fretta, correndo assai più veloce del tempo stesso. Ma il virus non ha nessuna fretta e ci costringe a una lentezza a cui non siamo affatto avvezzi. Ora, quasi per rieducarci, per farci scoprire quello che siamo sempre stati veramente e da cui ci eravamo illusi di aver preso definitivamente congedo, il Coronavirus ci costringe e ci riconduce a una condizione umana premoderna dimenticata e messa rapidamente da parte, perché è come se di fatto fossimo stati “arrestati”, bruscamente reclusi e forzati a convivere fianco a fianco, ora dopo ora, con noi stessi, a parlare con noi stessi e di noi stessi, indotti ad ascoltarci e ad accorgerci con amara sorpresa che tutto quello che dicevamo prima di quella pandemia, di quell’inatteso castigo, non era che suono cacofonico e per più versi insignificante, puro e inutile flatus vocis.

Ciò significa che la virulenza del virus ci costringe anche al silenzio, ad ascoltare i nostri silenzi e, assieme ad essi, quindi, anche il ronzio di qualche mosca, che proprio ora, in questi strani momenti si avverte confondendosi con il nostro respiro affannoso e quasi asmatico, una mosca che, svolazzando annoiata, si diverte rimbalzando da noi al nostro vicino. Questo era, direi a tutti gli esegeti che li criticano, il reale rischio che corsero gli amici di Giobbe quando andarono a fargli visita, nonostante che l’Uzita fosse stato toccato dalla piaga maligna, dalla tremenda shechìn ra‘ che Dio, su richiesta di Satana, acconsentì di fargli provare.

Ecco, sì: il respiro. Ma è proprio da quest’ultima essenza dell’umano e del vivente in generale, da quello stesso soffio, dalla ruàḥ che Dio ha insufflato nella nostra adamàh, nella nostra materia inorganica (a cui, virus o non virus, dobbiamo fare ritorno), che deriva il pericolo: è di esso che si nutre il virus, è grazie ad esso che si propaga, che ci tocca e che ci contagia.

Non dovremmo pertanto nemmeno respirare per non dargli la possibilità di diffondersi. Dovremmo paradossalmente pensare all’estinzione per sconfiggere il Coronavirus. Dovremmo creare il deserto attorno ad esso, giacché è degli uomini, della loro vita e della loro morte che esso ha bisogno per crescere e moltiplicarsi. Eppure non è così. Perché è proprio per aver creato un tale deserto sulla Terra, per aver desertificato il mondo, per aver reso il piccolo giardino delle delizie una immensa discarica a cielo aperto, che il virus ha avuto agio di propagarsi.

Alla fine, a farci da “altro”, da “prossimo” nel duro e incerto periodo della piaga maligna, del flagello, oltre alle noiose mosche, avremo ancora le locuste, le immancabili cavallette. Giacché ad essere allontanato e in qualche modo negato da questo virus è anche il cosiddetto “prossimo”, il quale, proprio per essere riscoperto nel suo profondo valore, dovrà mantenersi intollerabilmente a debita distanza, come la fidanzata per Kierkegaard o come l’essere per Heidegger. Dovremo abituarci a pensare che “prossimo” è ciò che ci si deve dare nella distanza. Il rapporto con il “prossimo” non potrà che essere virtuale e come tale inappagante. L’unico appagamento che potremo ancora avere è quello con noi stessi, perché noi stessi siamo stati costretti dal virus a ciò che ci è “più prossimo”, cioè a “noi stessi”, a noi viventi che viviamo nel costante pericolo dell’auto-contagio, in silenzio, in apnea, con la continua paura dell’auto-estinzione.

Ma avremo almeno il tempo per provare questo timore? Sapremo far fronte a questo pericolo dell’auto-estinzione? Ora infatti ne va non solo della vita del nostro futuro, ma del futuro della nostra vita. Tutti i nostri sforzi sono unanimamente tesi a scongiurare un tale rischio, mentre con il passare delle ore le note dell’inno di Mameli cominciano stranamente a commuoverci e la parola “patria” ad assumere il suo pieno significato. In questo disperato tentativo, come sempre, ci sostiene qualche residuo culturale, qualche frammento poetico. Ad esempio i versi di Novalis e del primo dei suoi Inni alla notte: tu mi hai annunciato la notte per la vita – mi hai reso uomo. Quelli celeberrimi di Hölderlin in Patmos (l’isola greca che fu terra d’esilio per l’apostolo Giovanni): Ma là dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che ti salva. Quelli dalla sublime semplicità de La Quiete dopo la tempesta di Leopardi: Passata è la tempesta: / Odo augelli far festa, e la gallina, / Tornata in su la via, / Che ripete il suo verso.

Sì, grazie a questo virus, compresi e compressi come siamo nel nostro essere piegati su noi stessi, e dunque per necessità più prossimi a noi stessi, nella reale possibilità dell’auto-estinzione, in questo asfittico e repentino restringimento del mondo, sì ora, finalmente, siamo in grado di intuire e di prevedere con questi nostri amici poeti che la tortora continuerà a richiamarci – tutùutu! – emettendo il suo tubare lamentoso, la coccinella assieme alla cimice proseguiranno la loro lenta e insensata marcia verso il nulla, il gallo seguiterà a cantare nelle scialbe aurore del mondo e l’eco risuonerà invano per la campagna desolata.

IVREA, 16 MARZO 2020

Coronavirus eLearning

Franco Di Giorgi

Coronavirus eLearning

La lezione del Coronavirus

Tra le difficili misure adottate in questi giorni febbrili dal governo italiano per evitare e contenere la diffusione del Coronavirus c’è quella della didattica a distanza.

Si tratta di un rimedio emergenziale che certo mette in crisi il già claudicante sistema scolastico e che pertanto “dovrebbe” essere solo di breve durata.

Nel diuturno aggiornamento garantito dai media, durante il nostro isolamento domiciliare, una tale misura ci fa pensare che è già da diversi anni che il ministero dell’istruzione prende in considerazione l’e-learning, cioè, appunto, il metodo della didattica a distanza.

Coronavirus

Solo che, a fronte di quel sistema farraginoso, una tale possibilità non poteva apparire che remota.

Grazie però al Covid-19, facendo di necessità virtù, direbbe il buon Manzoni, si ha modo di metterla in atto. Sfruttando le nuove tecnologie, ciò potrebbe avere i suoi immediati vantaggi per lo Stato, almeno economici.

Esso potrebbe infatti risparmiare non poco potendo ridurre sensibilmente le spese nel comparto scuola, a partire dapprima da un “giustificato” taglio agli stipendi degli insegnanti e poi, con una graduale riduzione, degli insegnanti medesimi, visto che ora basterebbe un solo docente per ogni disciplina, il quale dalla sua unica postazione, dalla sua comoda piattaforma casalinga, potrebbe impartire le sue lezioni a centinaia di utenti-scuola.

Ciò conviene sia allo Stato centrale sia alle regioni, dal momento che con questo risparmio potranno affrontare la necessaria spesa per la sanità e per le tanto necessarie quanto impreviste assunzioni di medici e infermieri.

Si dissolverebbe così nel nulla, grazie a quel batterio, il mito della lezione frontale.

E in effetti, a cosa potrebbe mai servire ancora un insegnante in carne ed ossa se la rete è in possesso di una memoria e di un sapere mille volte superiore al suo?

Siamo quindi a una svolta radicale nel campo dell’istruzione?

È possibile; e se si considera la recessione economica che quel virus può comportare sul piano internazionale, anche auspicabile.

«Niente ansia. Uniti ce la faremo» ci è stato poi detto.

Giusto. Ma come praticare questa esortazione se la triste realtà ci costringe intanto alla disunità, ci intima di mantenerci a debita distanza?

E ciò proprio quando nel frattempo masse di esseri umani, di profughi, di innocenti vengono usate sordidamente come armi biologiche e di ricatto nella incessante lotta fra gli Stati.

Pare esaurito, dunque, il tempo della globalizzazione e dell’abbraccio globale: il Coronavirus ci dice a chiare lettere che quel progetto, realizzato in quel modo, era “innaturale” e che non poteva avere vita lunga.

E ciò vale anche per l’Unione europea. In questo tempo in cui le emergenze umanitarie e naturali anziché risolversi si sommano e si moltiplicano, anche la fraternità è pertanto costretta a virtualizzarsi.

Compresa, purtroppo, anche quella candidamente manifestata dalle Sardine.

Se non si trova il nuovo vaccino, il nuovo antivirus, tutte le idee di fratellanza culturale e di vicinanza fra i popoli sono destinate a svuotarsi.

Vorrà dire allora che si è lavorato per nulla, che tutto è stato vano, inutile?

Può darsi.

Non potrà in ogni caso esserlo per quella casa farmaceutica, per quella multinazionale che entrerà in possesso del tanto agognato antidoto, da cui potrà ottenere verosimilmente utili ragguardevoli.

Quegli stessi che i signori del mondo riescono ad accaparrarsi con le guerre.

Perché di questo si tratta con questo nuovo bacillo influenzale, con questo nuovo nemico invisibile, di una vera e propria guerra.

Ci ricordiamo dei cento milioni morti che aveva causato in tutto il mondo la “spagnola”, la pandemia che, esattamente un secolo fa, aggredì il pianeta dopo la fine della prima guerra mondiale?

E due secoli fa, la tisi, sempre con le goccioline di saliva, non ne fece forse altrettanti?

Vogliamo poi parlare della peste del Seicento e del Trecento?

Il discorso ci porterebbe lontano, all’origine dell’umano e della vita stessa sulla Terra.

A causa di questo microscopico parassita, dunque, di un batterio che oltre che nella sanità e nella vita ci accomuna e ci rende partecipi di tutto il vivente anche nella malattia e nella morte, si ritorna alla solitudine, all’ideale del monachus, alla sobrietà e alla vita solitaria del medioevo, a forme di esistenza tanto decantate da artisti e poeti, a una vita fatta di polvere e di cenere, di indumenti madidi e fetidi gettati nelle pire e affidati alle fiamme purificatrici.

Tanto ormai la postmodernità ci aveva quasi abituati alla rifeudalizzazione sociale.

E con essa anche alla monadizzazione, all’esistenza da monadi, da individui con porte e finestre ben sprangate. Finita quindi – almeno per il momento – l’idea dello zoon politikon e dell’agorà.

Da anni, infatti, i politologi ci ripetono che l’elemento politikos, che è alla base dei legami sociali, si è dissolto e la stessa politica si è perduta; resiste tuttavia da par suo lo zoccolo duro dello zoon, dell’animale.

Ci attendono, sembra, il midbar, il deserto, il deserto che avanza, e assieme ad esso anche le locuste, nostre compagne da sempre, sin dai tempi biblici.

Ma oggi che nel giro di poche ore ci si è spalancata la voragine del vuoto e del nulla sotto i piedi; ora che viene di nuovo messa in gioco la nostra vita, che la posta in gioco è tornata ad essere la vita biologicamente intesa, proprio quando molti, specie alcuni, credevano di avere avuto già tutto e di essere al riparo da ogni possibile tempesta sul mare nostrum, e che si illudevano di poter mirare dalla riva con una certa tranquillità l’altrui gravoso travaglio; ebbene in questi momenti che, senza alcuna vera umana ragione, scopriamo di essere noi stessi come quei tanti altri che solo fino a ieri consideravamo pattume e inutile merce di scarto, oggi, qui, in queste ore di solitudine, di reclusione forzata e di evitamento ritorna più vivo che mai, pur se in veste di solidarietà, l’umano, semplice e originario desiderio di continuare ad essere, di essere in salute, di avere una vita non tanto piena ma purchessia, il desiderio di Dio, la brama di salvezza, il tanto lodato quanto odiato ma certamente inestinguibile istinto di sopravvivenza.

E tuttavia oggi, come ci dicono a più voci i virologi, non abbiamo ancora raggiunto il “picco” dell’epidemia, la massima espansione del contagio, non siamo ancora in grado, come Renzo Tramaglino, di avvederci della varietà delle “erbacce” che popolavano la sua vigna.

Oggi, insomma, con la riduzione della nostra libertà e dei nostri slanci vitali, ci sembra di dover rinunciare a qualcosa che solo fino a ieri ci sembrava solo accessoria e che ora si rivela assolutamente vitale.

Ebbene sì, adesso «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria».

Sono le parole che nel celebre quinto Canto dell’Inferno (vv. 121-123)

Dante suggerisce a Francesca da Rimini, sono i versi che verranno ripresi nella storia da tutti coloro che, per diversi motivi, sono stati privati della libertà e della vita.

Ivrea, 8 marzo 2020

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ALDO NATOLI

Un comunista senza partito

Ella BAFFONI, Peter KAMMERER, Aldo Natoli, un comunista senza partito, Roma, ed dell’asino, 2019.

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Libro su Aldo Natoli

Scheda di Sergio Dalmasso scritta per la rivista dell’Istituto storico di Cuneo “Il presente e la storia”.

Il testo di Baffoni e Kammerer ha il grande merito di riportare alla luce la figura di Aldo Natoli, su cui, non solamente dopo la morte (2010) è scesa una sorta di damnatio memoriae, per la sua partecipazione all’eresia del “manifesto” ed anche per le posizioni storiografiche spesso eterodosse.

Il libro è diviso in tre parti: una sintetica biografia, la raccolta di numerose testimonianze, una intervista allo stesso Natoli in cui questi ripercorre alcune tappe della propria vita.

Natoli nasce a Messina nel 1913. Vive i primi anni nelle baracche costruite dopo il tremendo terremoto che ha distrutto la città. Il padre, laureato in lettere antiche alla Normale di Pisa, insegna, per scelta pedagogica, alle medie inferiori.

Aldo si laurea in medicina, è interessato alla ricerca scientifica e nel 1939 viene inviato all’Istituto per il cancro di Parigi. Qui entra in contatto con i comunisti in esilio e inizia una attività di tramite fra la centrale all’estero del PCI e “l’interno”, anche grazie al fratello maggiore Glauco, lettore all’università di Strasburgo. Fra le amicizie, Paolo Bufalini, Lucio e Laura Lombardo Radice, Bruno Sanguinetti, la futura moglie Mirella De Carolis.

Il 21 dicembre 1939 è arrestato e condannato a cinque anni (due saranno condonati). Il carcere di Civitavecchia è per lui “scuola di comunismo” e di incontro con la classe operaia. E’ liberato (amnistia) nel dicembre 1942, arruolato nell’esercito e dal settembre 1943 lavora all’edizione clandestina dell’”Unità”. Dopo la liberazione di Roma, è dirigente della federazione del PCI (segretario dal 1946 al 1954), consigliere comunale, parlamentare dal 1948 al 1972.

Gli autori sottolineano l’impegno di Natoli verso le periferie della città, i quartieri rossi e poveri, di borgate e borghetti, l’interesse, spesso non compreso nel partito, per il sottoproletariato (significativo il dibattito su Una vita violenta di Pasolini), ma soprattutto la battaglia contro la speculazione edilizia, il sacco di Roma, alla base della campagna condotta dall’”Espresso” Capitale corrotta, nazione infetta. E’ un impegno che forse avrebbe salvato la città, in mano ai “palazzinari”, da colate di cemento, ma che – sostiene Natoli nella testimonianza- non è fatta propria interamente neppure dal PCI che la segue con sufficienza e la ritiene secondaria rispetto ad altre.

Inizia un nuovo campo di attività e diviene il vice di Luigi Longo alla sezione lavoro di massa. Sono gli anni delle grandi trasformazioni strutturali del paese e delle condizioni di lavoro, della sconfitta della CGIL alla FIAT, della biblica migrazione interna, del dibattito sul neocapitalismo, ma anche delle domande sullo stalinismo, sull’URSS, dopo il XX congresso dei comunisti sovietici, gli scioperi in Polonia e la rivolta ungherese.

Natoli, che ha accettato i processi di Mosca negli anni ’30 e il patto sovietico/tedesco, nella fedeltà al partito come unico strumento per agire, esprime i primi dubbi, le prime critiche, “da destra”, quasi in consonanza con Antonio Giolitti, di cui, però, non segue il percorso. Diverso è invece il giudizio sulla realtà italiana e sulla necessità di una diversa strategia. Questo lo avvicina ad Ingrao e alla battaglia, sconfitta frontalmente, che questi tenta nell’XI congresso del PCI (1966). La sinistra interna è emarginata, perde ogni ruolo nell’organigramma del partito.

Nel 1969, un piccolo gruppo di ingraiani (senza il leader) riprende molti dei temi e delle proposte, facendo leva sull’esplosione del movimento del ’68, della spinta studentesca ed operaia, sul radicalizzarsi della situazione internazionale (Cina, Vietnam, America latina). Nasce (giugno) la rivista “il manifesto” che produce la radiazione dei suoi redattori (Rossanda, Pintor, Caprara, Magri …). E’ Natoli, nel comitato centrale che vota, quasi all’unanimità, il provvedimento, a pronunciare un lungo intervento in cui ribadisce le posizioni del gruppo e che si chiude sostenendo che si può essere comunisti anche al di fuori del partito.

Inizia un nuovo percorso, ma anche qui si accumulano le contraddizioni. Natoli riferisce di scontri con Magri che chiede strette organizzative, mentre sarebbe più utile un lavoro di lunga lena, a tempi più lunghi, senza una precisa definizione partitica. E’, quindi, contrario al breve rapporto con Potere operaio, alla partecipazione alle elezioni (1972), alla costruzione di un piccolo partito, anche alle scelte successive sino alle liste con Lotta Continua nel 1976, all’identificazione fra il quotidiano “il manifesto” e una organizzazione politica.

Termina qui, in questi anni che il libro racconta in modo eccessivamente affrettato, la militanza di partito ed inizia una intensa, anche se poco nota, attività culturale.

Partecipa alle attività del circolo culturale di Montesacro, formato soprattutto da giovani che, tra il 1969 e il 1970, hanno lasciato il PCI e collabora con l’Istituto di filosofia dell’università di Urbino con corsi, seminari e convegni (Mao, Marx, lo stalinismo…).

Molti i suoi libri; nel 1971, pubblica La linea di Mao. Spontaneità e direzione nella rivoluzione culturale cinese, con Lisa Foa (Bari , De Donato, 1971), nel 1979 Sulle origini dello stalinismo, saggio popolare (Firenze, Vallecchi), oggi datato, ma testimonianza del grande lavoro fatto per comprendere l’origine di tanti scacchi della sinistra. L’interesse per Gramsci e dimostrato dall’innovativo Antigone e il prigioniero. Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci (Roma, ed. Riuniti, 1991) in cui “scopre” la figura della sorella della moglie di Gramsci, Tatiana Schucht, la persona che più ha seguito il carcerato in tutto il suo percorso.

Natoli è il primo a pubblicare con Gramsci- Tatiana Schucht, Lettere 1926-1935, non solo le lettere di Gramsci, ma anche quelle della cognata, per decenni ignorate, ricomponendo – nella sua interezza – un dialogo sino ad allora sconosciuto. L’ultimo testo esce nel 2013, tre anni dopo la sua morte, ed è un dialogo, con un altro grande della sinistra, Vittorio Foa, bilancio di una vita, Dialogo sull’antifascismo. Il PCI e l’Italia repubblicana, (Roma, Editori Riuniti University Press).

Le testimonianze presentano tanti volti, anche familiari e privati, di Natoli, letti da persone di età ed esperienza politica diversa (tra gli altri Sandro Portelli, Rossana Rossanda, Enzo Collotti, Celeste Ingrao). Nessuna ha, però, la bellezza di una vecchia intervista, curata da Sandro Portelli per “i giorni cantati” che si chiude con un episodio toccante. Natoli prende un tram verso la stazione Termini, un tranviere lo riconosce e gli chiede: “Aldo che cosa fai?”; “Sono un comunista senza partito.”; “Anch’io”.

Aldo Natoli